Il Novecento non poteva che finire come era iniziato, con la guerra, il sangue e il sacrificio di migliaia di persone. La fine della Belle époque e lo sparo di Sarajevo aprirono le porte al ventesimo secolo. Dieci milioni perirono nelle trincee di una guerra industriale, moderna, futurista e feroce. L’11 settembre 2001 il ventesimo secolo si concluse alla stregua di morti ed innocenti all’estremità meridionale di Manhattan, luogo inimmaginabile per ospitare un conflitto armato, simbolo del grande impero americano. Dopo la fine della Guerra Fredda, al ritmo di una connessione Internet capillare, di un mercato mondiale aperto e di un trionfo della liberaldemocrazia hegelianamente intesa da Francis Fukuyama come “fine della Storia” si era avviata un’epoca di benessere a trazione americana – il momento unipolare – che durò un decennio e iconicamente si concluse a principio del nuovo secolo. All’epoca, Washington sembrava imbattibile in tutti i campi.
L’11 settembre obbligò gli Stati Uniti a chiudere un decennio in cui questi non avevano avuto grossi rivali a livello internazionale. I nemici non tardarono ad arrivare o a farsi sentire: e sventrarono il cuore di Manhattan. La mattina dell’11 settembre 2001, vent’anni fa, quattro gruppi terroristici dirottarono quattro aerei di linea su suolo americano. Tre colpirono i target: le due Torri Gemelle di New York City e il Pentagono in Virginia. Le Twin Towers scomparvero dalla skyline dei grattacieli newyorchesi: attacco all’America, attacco all’Occidente. Per l’occasione, venne attivato per la prima volta l’articolo 5 della NATO sulla mutua difesa tra gli alleati del trattato in caso di attacco esterno. Dopo incendi e fumo, l’impalcatura complessiva delle torri cedette attorno al financial district di NYC. Lo Stock Exchange rimase chiuso per quattro giorni. Polvere e sangue, calcinacci e macerie ovunque. Shock planetario, caos aereo e logistico, ma anche culturale e sociale.
Quasi tremila morti, oltre seimila feriti. Secondo alcuni, il più grande attentato terroristico di sempre. Crollo delle torri, degli edifici circostanti, della fiducia nell’America, delle borse. George W. Bush dichiarò lo stato d’emergenza e indirizzò i sospetti verso il gruppo terroristico di al-Qaida e Osama bin Laden. Nel complesso, la sua doppia presidenza fu scandita dalle controverse e talvolta criminali risposte americane post-Nine-Eleven. La prima torre crollò alle 8:46, poi alle 9:02 un secondo aereo si abbatté contro la seconda. Sergio Romano (Il rischio americano) ricorda che «le due torri sopravvissero per un centinaio di minuti e crollarono per una combinazione di fattori: la velocità degli aerei, la quantità di energia provocata dall’impatto, l’incendio appiccato dai ventimila galloni di carburante che si sparse lungo i fianchi dei due grattacieli».
Dal punto di vista degli attentatori, un successo spettacolare. L’America era in ginocchio. Bin Laden e i suoi riuscirono a cambiare il volto del paese, che scatenò verso un nemico semi-invisibile una risposta violenta, sgraziata, confusa, che toccò anche i cittadini americani stessi. Per un attimo si temette che la globalizzazione potesse arrestarsi. L’America dei “favolosi anni Ottanta” e del trionfo geopolitico degli anni Novanta entrò in un cono d’ombra. La mania del controllo e della sicurezza pervasero il paese, rallentandolo, preoccupandolo. Il pacchetto di misure antiterrorismo che rasentarono la paranoia e l’incostituzionalità arrivò nella forma del Patriot Act, lesivo per le libertà individuali. D’altronde, in “The Age of Holy Terror” (The Washington Post, 12 settembre 2001) Charles Krauthammer aveva scritto «This is not crime. This is war.» E guerra fu: Bush parlò su una collina di macerie dopo l’attentato: i terroristi avrebbero presto sentito la potenza a stelle e strisce.
«Il nemico si è identificato in pubblico e apertamente», scrisse il neoconservatore Krauthammer. «Le nostre delicate sensibilità ci hanno impedito di pronunciare il suo nome. Il suo nome è Islam radicale. Non l’Islam praticato in maniera pacifica da milioni di fedeli nel mondo. Ma un movimento politico, dedito all’imporre la sua ideologia fanatica». I dibattiti attorno ai movimenti religiosi estremisti e il terrorismo durano da vent’anni, così come anche le critiche sul ruolo dell’America nel mondo che avrebbe contribuito a generare una risposta terroristica. «Il terrorismo è per molti aspetti l’inevitabile risultato della sua straordinaria potenza», continua Romano. «Quando un impero è troppo potente ed estende la sua autorità […] sull’intero pianeta, non può non avere nemici. I suoi interessi strategici, le esigenze della sua economia e le sue stesse dimensioni […] lo spingono ad assumere atteggiamenti che finiscono per calpestare […] diritti o interessi altrui.»
Bush non diede subito un carattere anti-Islam alle sue prime dichiarazioni dopo l’attentato, ma la retorica sui “valori occidentali” intervenne presto nel complesso puzzle delle alleanze americane. E l’America reagì: reagì da arrabbiata e si arrivò ad una Seconda Guerra del Golfo. Nulla a che fare con la Prima: sotto George H. W. Bush si era formata una coalizione internazionale che vinse una guerra lampo contro Saddam Hussein. Ben diversa la situazione in Afghanistan e poi in Iraq, dove diversi soldati americani si macchiarono di crimini orrendi nella prigione di Abu Ghraib. L’11 settembre 2001 l’Occidente tutto si strinse attorno alle macerie di Ground Zero; la Russia e i nemici post-comunisti mostrarono solidarietà all’America. Tante cose sono cambiate da allora: se si guarda alla percentuale di PIL mondiale detenuta, dall’11 settembre in poi Cina ed UE si sono rafforzate notevolmente. Il Nine-Eleven segnò la fine dell’unipolarismo multilaterale democratico (quello di Bill Clinton) e iniziò la stagione dell’unipolarismo unilaterale repubblicano di Bush.
Con l’arrivo poi della crisi economico-finanziaria e la crisi delle democrazie occidentali fu chiaro a tutti che un nuovo “bipolarismo multilaterale” era in arrivo: Stati Uniti e Cina come maggiori potenze del globo, ma costretti a regnare tra piccoli imperi di mezzo quali UE e Russia. Una situazione nuovamente bipolare, con l’11 settembre simbolicamente come anno zero. Il post-Nine-Eleven segnò l’arrivo di nuovi nemici, nuove sfide, nuovi modi di fare la guerra, nuovi teatri di conflitto, nuove potenze in ascesa. Era la fine del Novecento: la fine dei blocchi, l’arrivo di un nemico prorompente (il terrorismo islamico), la potenza americana dispiegata ovunque e non sempre a ragione. Fino ad arrivare all’oggi, quando sembra che gli Stati Uniti non vogliano più essere l’indispensable nation di cui l’Occidente nel complesso ha ancora bisogno. L’11 settembre 2021 era la data scelta da Joe Biden come la fine della missione americana in Afghanistan. Risultati scarsi nella guerra più lunga combattuta da Washington – impensabili in epoca di Guerra Fredda, ma anche nel momento unipolare degli anni Novanta. Un segno che il Novecento era davvero finito sotto le macerie di Ground Zero.