Riceviamo e pubblichiamo volentieri un articolo di Crescenzo Garofalo
Kirkuk è in tumulto. I soldati arabi penetrati fulmineamente nella cittadina innalzano i fucili al cielo, orgogliosi e vendicatori della disfatta assira avvenuta millenni or sono contro la nascente potenza dei Medi, i progenitori del popolo curdo, proprio nell’antico sito di Arrapha, su cui i Peshmerga erano riusciti a rimettere le mani insperatamente durante la prima dura fase dell’insurrezione salafita, approfittando del ripiegamento generale dell’impreparato Esercito Iracheno.
Stavolta, però, non si potranno narrare cronache su scontri feroci di possenti armate che impattano le une contro le altre come all’apogeo del Regno di Babilonia nel 600 a.C. e né di interi quartieri rasi al suolo dall’artiglieria dei conquistatori come venne deciso dal condottiero safavide Nadir Shah durante una delle sue imponenti campagne militari del 18° secolo.
In realtà già il 14 Ottobre il Capo di Stato curdo Barzani si era incontrato in un meeting con alcuni rappresentati del Primo Ministro al Abadi affinché, per evitare una deflagrazione immediata del conflitto per cui nessuna delle due fazioni si sentirebbe ancora predisposta, si potesse attuare un restringimento parziale ed indolore dei confini tra le due amministrazioni. Il risultato è stato che, quando gli Humvee donati dalle forze armate statunitensi ai soldati iracheni per contrastare la minaccia jihadista hanno cominciato a macinare terreno verso la cittadina rinsaldata (l’ultimo raid da parte di cellule dormienti dello Stato Islamico era avvenuto esattamente un anno fa ed era durato 3 giorni) e le brigate turkmene assumevano facilmente il controllo sul centro di Tuz Khurmatu a sud, le milizie legate ai partiti di Barzani e dei familiari del defunto capo di stato Talabani, si sono ritirate tacitamente, sfuggendo al confronto con l’aggregazione filo-sciita dell’Hashd Al-Sha’abi, vero motore della riscossa di Baghdad degli ultimi due anni e mezzo.
Neanche qui si troviamo di fronte a una commedia inedita. Come a Kirkuk anche a Sinjar,tra le piane di Ninive, solo i curdi turchi del PKK hanno scelto provato una inutile resistenza, ancora più disperata di quella che ci fu nell’orrida estate 2014, quando il ritiro dei Peshmerga dalla cittadina nel nord-ovest aveva consentito ai militanti dello Stato Islamico di perpetrare uno dei loro crimini più efferati nell’area dove risiedeva la maggiore comunità yazida del mondo, che riuscì in parte a sfuggire al massacro rifugiandosi sulla montagne rocciose occupate dai militanti del PKK, spingendoli così a combattere con tenacia una battaglia che non doveva essere la loro fino alla ripresa completa di Sinjar, avvenuta grazie al ritrovato coordinamento con i Peshmerga nell’offensiva del Novembre 2015 denominata “La Furia di Melek Taus” in onore della principale divinità del culto yazida raffigurata durante i riti mistici nelle sembianze di un pavone che, secondo l’escatologia classica dell’Islam, costituirebbe la forma fisica di Satana incarnato sulla terra.
Oggi un’altra la furia rischia di incendiare il paese. La rabbia di coloro che dopo aver visto le loro case occupate non hanno raccolto l’invito implicito delle autorità a trasferirsi nella parte interna del Basur, anch’essa minacciata a nord dai tanker turchi pronti a violare i confini per estendere il loro raggio d’azione sui secessionisti guidati dai vicari di Abdullah “Apo” Ocalan, e si sentirebbero pronti ad imbracciare le armi in una nuova sollevazione popolare destinata ad intorbidire le acque già niente affatto cristalline dell’attuale corso degli eventi. Non sono mancate avvisaglie negli ultimi giorni a seguito dell’occupazione militare.
Pare, quindi, che la sconfitta annunciata del sedicente Califfato non sia servita ad impedire la messa in discussione dell’Accordo Sykes-Picot, con cui un secolo fa furono delineati gli assetti territoriali della regione su esclusive basi strategiche dai colonialisti europei.