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Speaker's Corner

Il Reddito di cittadinanza e i brigatisti

Ha suscitato indignazione e scandalo il fatto, rivelato dal quotidiano “La Verità”,  che l’ex brigatista Federica Saraceni, condannata per l’omicidio di Massimo D’Antona, stia percependo il reddito di cittadinanza. Non entro nel merito delle tante questioni che si sono sollevate intorno a questa vicenda, perché c’è un aspetto che mi ha colpito più di tutti gli altri. Mi stupisco che non abbia colpito altri commentatori. 

D’accordo, qualcuno ha utilizzato questo caso per screditare il reddito di cittadinanza in quanto tale, denunciando il “puro assistenzialismo”; altri hanno pensato di dover modificare le norme che lo regolano. So che il reddito di cittadinanza per come è oggi è davvero molto distante dal modello dei paesi nord europei di cui dovrebbe essere una copia.

Ma il punto paradossale e sconcertante è questo: il giuslavorista Massimo D’Antona fu assassinato dalle Brigate Rosse proprio perché lavorava, tra le altre cose, a una riforma del welfare italiano che andasse nella direzione di un “reddito di cittadinanza” (se vogliamo usare questo nome) o come si diceva allora “reddito di inserimento” (con un calco del francese Revenu minimum d’insertion) che fosse in linea con gli altri paesi europei.

Lo si legge nello stesso volantino di rivendicazione dell’attentato delle Brigate Rosse, che spiega in quale prospettiva si sarebbe dovuta collocare l’offensiva a Massimo D’Antona”, ovvero quella di una risposta   all’attacco politico neocorporativo del ‘Patto per l’occupazione e lo sviluppo’ con il quale l’equilibrio politico dominante” avrebbe inteso procedere ad un “riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo”. 

Poche pagine dopo si legge: “In un contesto in cui la disoccupazione non è solo un effetto di crisi cicliche, ma è un dato strutturale non governabile con questi strumenti tradizionali, nelle contraddizioni sociali che genera e, dal momento che rapporti di forza favorevoli alla borghesia fanno reputare di poter eliminare questi costi sociali, la linea che nasce dal progetto centrale della B.I.[borghesia imperialista] prevede la loro sostituzione con un istituto come quello del “reddito minimo di inserimento” che consenta di perseguire l’obiettivo specifico di ridurre la spesa sociale, pur a fronte di incrementate esigenze sociali, e quello generale di favorire la competizione tra proletari”.

Il lavoro di D’Antona, come quello di Marco Biagi, mirava in realtà a completare la riforma in senso universalistico del welfare italiano. 

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