La crisi pandemica, come andiamo ripetendo da mesi, ha reso evidenti i punti deboli del nostro Paese, tra cui primeggia la scuola, che già prima si trovava in una grave situazione di abbandono. Con il neonato governo Draghi però il Ministro dell’Istruzione Bianchi sembra aprire una finestra al rilancio della scuola, parlando per la prima volta da tempo di una vera e propria riforma del sistema. Egli stesso in una recente intervista ha ricordato che “la scuola è il pilastro dello sviluppo; lo sviluppo è conoscenza, ma conoscenza diffusa, partecipata, e inclusiva e solo una scuola aperta, democratica e pienamente inclusiva può garantire una base per una crescita che coinvolga l’intero Paese, l’intera società.”
Una nuova scuola
Come ho scritto qualche settimana fa, il sistema scuola ha dovuto fronteggiare negli ultimi mesi una sfida difficile, che ha visto gli insegnanti annaspare per inventarsi di sana pianta una didattica completamente nuova e gli studenti sempre più inclini all’abbandono e al disinteresse. I numeri raccontano una realtà drammatica, con il dato dei possibili abbandoni che, secondo alcune stime, sarebbe nell’ordine delle decine di migliaia. Io, per quanto frequenti l’ambiente privilegiato del liceo classico, sono testimone diretto del disinteresse crescente degli studenti di fronte alla DAD, in parte perché non tutti hanno i mezzi per poterla vivere al meglio e in secondo luogo perché molti insegnanti, nonostante gli sforzi, purtroppo non sono stati all’altezza della sfida.
La crisi però ha anche aperto a nuove concezioni di didattica, mostrando che effettivamente non tutto è perduto e che invece sarebbe possibile cambiare la scuola per adattarla alle esigenze del mondo di oggi. Per farlo però occorrerebbe non solo un impegno da parte di insegnanti e dirigenti, che in molti casi c’è e deve fronteggiare una contestazione spietata da parte dei tradizionalisti della didattica, ma una vera e propria riforma trasversale. Non me ne vogliano i professori e i compagni classicisti, ma davvero pensiamo nel 2021 di formare i liceali, che sono la futura classe dirigente, con una scuola sostanzialmente rimasta invariata dai tempi di Gentile? Non crediamo che nell’ultimo secolo le competenze e le conoscenze richieste non solo dal mondo del lavoro ma anche dalla società e da qualsivoglia interazione sociale siano cambiate?
Naturalmente il discorso si può estendere alla totalità degli istituti italiani, i cui studenti spesso e volentieri sono risultati deficitari ai test PISA, con punteggi decisamente inferiori alla media OECD. I nostri studenti non sono particolarmente performanti neanche nella parte di comprensione, che, per l’impostazione letteraria della nostra scuola, dovrebbe essere il vero e proprio cavallo di battaglia. D’altro canto, questo non suscita sorpresa, data l’impostazione scolastica italiana, che fa del nozionismo la sua caratteristica fondamentale e che abbandona quasi del tutto invece competenze e conoscenze fondamentali alla crescita – personale e professionale – degli studenti.
Il “piano Bianchi”
Sotto questo profilo però la nomina del professor Patrizio Bianchi, già rettore dell’Università di Ferrara e direttore scientifico dell’Ifab (Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano), ha ispirato qualche speranza nei cuori degli osservatori più attenti e ha aperto delle interessanti possibilità per quanto riguarda il futuro dell’istruzione. In un’intervista del dicembre 2020, egli stesso ha ammesso che l’Italia “non aveva le forze intellettuali, competenti e sufficienti per sostenere un grande disegno di rilancio, oltre la palude della stagnazione”.
Anticipando le critiche poi il professore ha affermato che “non vi è contraddizione fra sviluppo della persona – della coscienza di sé stessi, della conoscenza di sé stessi – e uno sviluppo che sempre più richiede persone aventi visione del futuro e capacità di fare comunità”. Smettiamo di credere che il tema dello sviluppo sia esclusivamente economico: non è così! E se la scuola ha smesso di crederci ha rinunciato alla sua funzione primaria: quella di dare la possibilità a tutti di creare nuova ricchezza – intellettuale, culturale, sociale, emotiva, artistica, economica – per se stessi e per la società intera. La scuola, secondo Bianchi, dovrebbe cercare un equilibrio tra formazione delle classi dirigenti e miglioramento della società nel suo insieme, tra leadership e sviluppo del senso di comunità. Al contrario, la scuola ha messo al primo posto la tutela di una tanto millantata cultura, nutrendosi di un passato mitizzato ed evitando il confronto con un più incerto futuro.
Alle assurdità della tradizione quindi il professor Bianchi contrappone un sistema completamente diverso, basato su un parallelismo – non un divario – tra licei e istituti professionalizzanti. Un sistema che offra due strade ugualmente dignitose agli studenti, ma che mantenga anche uno sguardo alla trasversalità degli studi, al fine di evitare l’errore che spesso è stato attribuito al sistema gentiliano: quello di porre i ragazzi di fronte a scelte inderogabili in giovanissima età, distinguendo nettamente due percorsi che in realtà potrebbero bene interagire l’uno con l’altro. In particolare, sarebbero i percorsi tecnici ad ottenere maggiore riguardo, sfociando poi negli ITS (Istituti Tecnici Superiori), che consentirebbero già a 16 anni di intraprendere un percorso terziario o post-secondario per chi non è interessato a conseguire un titolo accademico. D’altra parte, nell’ambito liceale l’idea è quella di ridurre la frequenza a 4 anni, così come avviene in quasi tutti i Paesi nel contesto internazionale.
Gli obiettivi devono essere comuni sul piano nazionale: un sistema che dia ai ragazzi più opportunità di crescita e che apra loro più strade possibili. Ma come raggiungere questi traguardi? Secondo il professor Bianchi, è necessario guardare al sistema educativo in un’ottica nuova, che sia rispettosa delle eccellenze locali e anzi che le alimenti: “riaprire il cantiere Autonomia scolastica oggi vuol dire più che mai riaprire il dialogo con il territorio attraverso Patti educativi di comunità, che ristabiliscano la passione collettiva di una comunità per la propria scuola e nel contempo la partecipazione e condivisione di una scuola che venga vista come luogo dell’integrazione e dell’inclusione sociale come base di un nuovo sviluppo.” Le scuole, quindi, non possono più essere standardizzate per tutti, ma devono essere attente alle esigenze territoriali: ascoltare la comunità e rendersi parte integrante di essa, per rinsaldare il legame con il territorio e per rilanciare il Paese partendo dal basso.
La Crescita passa per il rinnovamento
Purtroppo o per fortuna, per cambiare così radicalmente un sistema così marcio sarebbero necessari anni, pertanto non possiamo attenderci che un governo come quello attuale faccia enormi passi avanti in questa direzione. Il professor Bianchi, poi, se vorrà avviare il piano di riforme da lui auspicato, dovrà necessariamente confrontarsi con una durissima opposizione, quella di chi vorrebbe che la scuola rimanesse sempre uguale a se stessa, senza confrontarsi con il mondo circostante e anzi disprezzandolo. A questa opposizione reazionaria rispondo personalmente, chiedendo come sia possibile progredire senza cambiare, senza adattarsi e cercando di reprimere qualsiasi tentativo di cambiamento in atto. Com’è possibile migliorare le proprie condizioni individuali, com’è possibile crescere, come individui e come Paese, senza un’istruzione moderna e all’avanguardia, che sappia leggere i trend del futuro e che sappia indirizzare le giovani generazioni verso la realizzazione personale, il progresso, la felicità?