Il 16 gennaio 2023 le forze di polizia sono riuscite a consegnare alla giustizia il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro dopo una latitanza durata quasi trent’anni, un momento storico nella interminabile lotta alla mafia. Le modalità calme e rapide della cattura, estranianti in particolare per coloro che sono cresciuti con l’epica anti-eroica di “Scarface” e i dramma violenti e sofisticati della trilogia de “Il Padrino”, unite al fatto che il tutto sia avvenuto nel cuore di Palermo, hanno riportato a galla luoghi comuni e dietrologie che da decenni accompagnano il dibattito italiano sulla criminalità organizzata.
Dall’antiquato “La Mafia non esiste, è una invenzione dello Stato” si è poi passati a “La Mafia esiste e lavora per lo Stato” o il contrario, accompagnando l’accusa con complesse ricostruzioni sui veri mandanti della strage di via D’Amelio e arditi spin-off con il sequestro Moro. Poche congetture infondate hanno però goduto della stessa diffusione e dello stesso prestigio di quella riguardante il ruolo decisivo assunto dalle cosche meridionali nello sbarco in Sicilia del 1943.
La tesi, ancora ampiamente propugnata negli ambienti dell’estrema destra italiana, è entrata nell’immaginario collettivo ironicamente grazie a scrittori e registi distanti anni luce da quel mondo. Francesco Rosi l’ha trattata in ben due suoi film biografici, “Salvatore Giuliano” e “Lucky Luciano”, e in anni recenti Pierfrancesco Filiberti (in arte Pif) l’ha ripescata per il suo “In guerra per amore”. Il giorno prima dell’arresto di Messina Denaro, il famosissimo canale di divulgazione storica “Kings and Generals” ha pubblicato su YouTube un documentario di 20 minuti in cui spiega l’intera congettura, avvalorandola implicitamente. In sostanza, Cosa Nostra avrebbe stretto un patto con gli Alleati affinché potesse finalmente tornare ad esercitare un controllo incontrastato sull’isola dopo la dura repressione subita in passato dal regime nella personificazione del prefetto fascista Cesare Mori.
Partiamo proprio dalla figura di quest’ultimo per decostruire il mito e, solamente in un secondo momento, far intuire le ragioni della sua creazione. Come efficacemente raccontato nella biografia di Arrigo Petacco che servirà da base per l’omonimo film di Pasquale Squitieri, Mori non è dal principio un accanito mussoliniano. Al contrario, nel suo periodo come prefetto di Bologna è tra i pochi a perseguire con uguale severità tanto le sommosse dei gruppi comunisti quanto quelle delle squadracce fasciste, le quali gli dedicano alcuni canti irrisori e in un’occasione orinano sfrontatamente davanti al palazzo del governo in cui svolge le sue funzioni.
Con la presa al potere del fascismo sembra destinato quindi all’ombra e così è al principio. Il Duce, però, riconoscendone le qualità, decide ad un certo punto di inviarlo in Sicilia, dove già Mori si era distinto qualche anno prima in ruoli minori, per sradicare la duplice piaga della Mafia e del brigantaggio.
Nei primi anni Mori ha carta bianca totale. Sfruttando il dispiegamento di forze garantitogli dal regime organizza retate, perlustrazioni continue, terrorizza psicologicamente la popolazione per convincerla a non fiancheggiare i delinquenti (“Se i siciliani hanno paura dei mafiosi li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti”). I suoi metodi sono poco ortodossi, ma sembrano far registrare dei progressi. Decine di bande vengono sgominate e centinaia sono gli arresti tra i cosidetti picciotti. Uno dei risultati più importanti è la cattura del boss Vito Cascio Ferro, tra i primi leader italiani di spicco della criminalità organizzata in America, da cui era stato costretto a scappare a causa delle indagini del poliziotto italo-americano Joe Petrosino. Petrosino l’aveva seguito fino a Palermo, dove era caduto sotto i colpi di pistola di un sicario.
Cascio Ferro verrà condannato all’ergastolo e morirà di fame e sete nel 1943 a Pozzuoli, quando le guardie abbandoneranno la prigione in cui era detenuto a causa dei bombardamenti, ma la sua storia rimane un’eccezione. La maggioranza delle vittime di Mori sono mafiosi di piccolo taglio. I capi veri per il momento sono liberi e molti di questi hanno legami con i politici locali allineati con il Partito Fascista, incluso il Segretario Generale di Palermo Alfredo Cucco. Quando le indagini di Mori cominciano a mettere in luce questi rapporti, intorno a Mussolini aumentano le pressioni per rimuovere il Prefetto troppo intransigente e caparbio. Il Duce cede e nel 1929 Mori conclude il suo mandato tornando nella penisola. Non ricoprirà più alcun ruolo di rilievo nel contrasto alla criminalità e morirà dimenticato durante il secondo conflitto mondiale, mentre i dirigenti di cui aveva denunciato la corruzione e la connivenza con la malavita verranno prosciolti dal regime. La Mafia siciliana può levare un sospiro.
Quando gli americani e gli inglesi organizzano lo sbarco quattordici anni dopo, quindi, le cosche non hanno alcuna necessità di venire liberate pur essendo sparite dai radar per il silenzio stampa imposto da Roma. Vero è che gli americani entrano in contatto con personaggi come Calogero Vizzini, uomo d’onore della cittadina di Vitalba (da alcune fonti erroneamente descritto come il “Capo dei Capi”, carica inesistente all’epoca) per farsi indicare la locazione di alcuni campi minati nell’area circostante e che in seguito lo stesso Vizzini verrà nominato sindaco della sua cittadina dal governo militare alleato. Lo storico siracusano Rosario Mangiameli ha efficacemente messo in risalto come la nomina sia scaturita dal ruolo di garante delle cooperative cattoliche che “Don Calò”, come è soprannominato dai paesani, ricopre in una fase di transizione in cui le autorità ecclesiastiche sono rimaste la principale, se non l’unica, forma di autorità in cui la popolazione siciliana ancora può riconoscersi, essendo le altre fuggite o in carcere. Vale la pena menzionare che, dopo aver svolto il suo compito iniziale di informatore, Vizzini viene congedato dagli ufficiali che non si premurano nemmeno di accompagnarlo in auto a casa.
Appare invece dubbio l’aneddoto della bandiera con la L, iniziale del leggendario boss italo-americano Lucky Luciano, consegnata dalla contraerea statunitense attraverso un paracadute ed issata sopra un carro armato che avrebbe fatto il suo ingresso a Villalba con Don Calò seduto sopra (scena iconica mostrata nel videogioco “Mafia II”). Luciano aveva lasciato l’Italia con i genitori nel 1905, all’età di otto anni, e non risultava aver mantenuto con i clan della terra natia un legame tale da poter prendere seriamente in considerazione né una fama talmente radicata e folkloristica né il contributo logistico all’operazione poi millantato dai suoi sostenitori. La scarcerazione e deportazione a Napoli di Luciano, voluta dal Governatore Thomas E. Dewey nel 1946 per imprecisati meriti “patriottici” e indicata come prova del coinvolgimento del capomafia nei piani dello sbarco, sarebbe da attribuire in realtà ad un accordo relativo alla gestione del porto di New York a seguito di azioni di sabotaggio allestite probabilmente dallo stesso boss per facilitare il suo rilascio dal penitenziario.
Tanti “se” e “forse” fin qui, ma per fortuna abbiamo anche qualche certezza. Infatti, subito dopo aver assunto il controllo della Sicilia, gli anglo-americani entrano in contrasto con la malavitanza locale e in conseguenza vengono promosse diverse disposizioni atte a limitarne l’influenza giungendo a riesumare apparati di vigilanza del periodo Mori e conducendo varie retate per strappare alle cosche il controllo dell’approvvigionamento alimentare vitale per le truppe in stanza nella regione. Se complicità con la Mafia c’è, quindi, essa è di brevissima durata e non determinante per la riuscita di quella che rimane una delle operazioni anfibie più massicce mai progettate e messe in atto. La propaganda fascista, però, doveva giustificare l’umiliazione improvvisa e totalmente inaspettata inferta dai nemici sulle coste patrie. La scusante più comoda a disposizione era chiaramente che gli Alleati avessero stretto un patto con il crimine organizzato per colpire alle spalle il regime.
Questa narrativa viene rinforzata nel periodo repubblicano dal giornalista e politico Michele Pantaleone, originario proprio di Villalba ed autore di “Mafia e Politica. 1943-1962”, saggio di notevole fortuna. Pantaleone ha un credito indiscutibile nel portare sotto la lente dell’opinione pubblica nazionale la problematica mafiosa e però non riesce a nascondere la sua deformazione ideologica. Così nell’accordo tra Cosa Nostra e Stati Uniti inserisce in seguito un altro contraente: la Democrazia Cristiana. Ecco la Triade che si spartisce il potere in Sicilia con l’obiettivo comune di ostacolare la sinistra socialista di cui Pantaleone è militante attivo.
Lo stimato meridionalista Salvatore Lupo ha giustamente fatto emergere, con studi ulteriormente approfonditi dalla professoressa Manoela Patti dell’Università di Palermo, come ai primordi della Repubblica italiana in realtà gran parte dei capimafia si compattarono eccezionalmente dietro il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (MIS), il quale si presentò alle elezioni nazionali del 1946 e a quelle di due anni dopo ottenendo in entrambe le circostanze risultati modestissimi, inferiori allo stesso PCI locale. Il fallimento politico contribuì a spingere diversi sostenitori della secessione alla lotta armata sotto le insegne dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS), nelle cui file militò il bandito Salvatore Giuliano. Dai rapporti desecretati dell’Office of Strategic Services (OSS), antenato della CIA, non è emersa la minima relazione tra i servizi segreti statunitensi e queste tre entità (MIS, EVIS, Giuliano), come in seguito cercò di far credere una determinata vulgata. Il responsabile dell’OSS in Italia Max Corvo, uno dei tanti americani di origine siciliana coinvolto nella Liberazione, fu invece molto attivo nell’inviare rifornimenti ai gruppi partigiani del nord nella penisola, inclusi quelli di ispirazione socialista o comunista. A guerra conclusa l’amministrazione americana appoggiò apertamente il Governo Parri, che si impegnò da subito a stroncare con durezza le fragili velleità del separatismo siculo.
L’interregno anglosassone era ormai finito con il popolo italiano tornato padrone del suo destino. Purtroppo la classe politica nazionale non sempre si sarebbe dimostrata in grado di onorare degnamente i sacrifici sofferti all’indomani di quel 9 luglio, quando la nazione, scossa dall’impeto e dal coraggio dei suoi figli d’oltreoceano, avrebbe cominciato ad alzare la testa contro la tirannia.
Fonti bibliografiche:
“Il Prefetto di Ferro” di Arrigo Petacco
“Gli alleati e la Mafia: un patto scellerato?” di Salvatore Lupo
“Sicilia 1943: immagini e rappresentazioni di una sconfitta tra politica, storiografia e mercato” di Rosario Mangiameli
“In guerra con la storia” di Rosario Mangiameli
“La Sicilia e gli Alleati” di Manoela Patti
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terroni, questo è quel che conta