Lo Stato ebraico è tornato al centro dell’attenzione mediatica per tre eventi accaduti negli ultimi mesi. In ordine cronologico: l’insediamento del nuovo governo col ritorno di Netanyahu; il nuovo rischio di escalation nella West Bank; lo scontro con l’Iran. Questi tre eventi, in realtà, sono tre fronti. L’incrocio tra di essi mostra il paradosso in cui si trova Israele.
Lo Stato ebraico non ha mai goduto di una congiuntura esterna così favorevole come negli ultimi anni. Tutti i suoi nemici sono in difficoltà. La Repubblica Islamica ha una situazione quasi rivoluzionaria all’interno, con una posizione internazionale più precaria. Israele ha dimostrato di poterla colpire in più modi, tra bombardamenti sui suoi proxies e operazioni clandestine in Iran. L’Arabia Saudita è in seria difficoltà dopo le debacle strategiche degli anni scorsi – per quanto gli arabi del Golfo si siano avvicinati a Israele, rimangono potenzialmente dei rivali dato che sostenevano i gruppi armati anti-israeliani fino a poco fa (in Medio Oriente non ci si può fidare di nessuno). La Turchia non è ancora in grado di minacciare Israele; i due Paesi, poi, sono in una fase di riavvicinamento accelerato, come dimostrato dal sostegno israeliano dopo il terribile terremoto che ha colpito il sud della Turchia e il nord della Siria. Hamas e Jihad Islamico Palestinese sono in netta difficoltà. Al momento, c’è una sola minaccia alla sicurezza di Israele: la stessa Israele.
Partiamo dai fatti. Le elezioni dello scorso Novembre, le quinte negli ultimi quattro anni, hanno dato una maggioranza chiara nella Knesset (il parlamento israeliano) con la vittoria della coalizione capitanata da Netanyahu. Il nuovo governo è stato definito come quello più “estremista e a destra” della storia del Paese. Un giudizio, questo, più adeguato per l’aggettivo “estremista”, che non per la collocazione a destra. Non si coglie la peculiarità del sistema politico israeliano se si rimane incollati alla rigida partizione tra destra e sinistra, così come viene concepita in Europa. Il panorama politico israeliano è multipolare ed estremamente parcellizzato: i partiti si sciolgono, si uniscono e si ridividono. Le linee di faglia della politica si sviluppano sull’intreccio tra le rivalità dei singoli leader, gli orientamenti conservatori o progressisti e le divisioni etnico-culturali della società israeliana.
Nello specifico, nella nuova coalizione di maggioranza ci sono numerosi partiti, molto meno simili tra di loro di quanto sembri. La maggioranza relativa è del Likud, partito conservatore storicamente egemone nella destra israeliana, che però si è trasformato in un giocattolo personale di Netanyahu (usando una metafora europea per capirci: dai Thories a Forza Italia). Poi, ci sono due partiti ortodossi (Shas, e Torah Judaism), oltranzisti sul rapporto tra società e religione. Infine, ci sono i due partiti più estremisti, una miscela tra nazionalismo e radicalismo religioso che rappresentano la frangia più estrema dei coloni della West Bank: Potere ebraico di Itman Ben-Gvir e il Partito sionista-religioso di Smoritch. I più importanti partiti dell’opposizione sono i seguenti: Yesh Atid dell’ex Premier Yair Lapid; Blu e Bianco di Benny Gantz; il Partito di Avidgor Lieberman, un nazionalista laico rappresentante della comunità russofona di Israele; Raam (partito arabo-islamista che fece parte della precedente maggioranza); la Lista Araba Comune. Da segnalare la fuoriuscita dal parlamento della sinistra e della fazione di destra che faceva capo all’ex Premier Naftali Bennett.
A livello superficiale, si può affermare che siano al governo i movimenti più oltranzisti sulla questione palestinese, ma anche sui diritti civili interni e sull’indipendenza della Corte Suprema. Da questo deriva il giudizio già citato del nuovo governo israeliano come quello più a destra della storia di Israele. L’idea, per chi sostiene tale giudizio, è che Israele rischi una deriva “polacca o ungherese”, cioè una maggioranza nazionalista che colpisce la liberal-democrazia.
Ad una analisi più approfondita, in realtà, la situazione è più complessa. E anche più pericolosa. Il problema di Israele non è solo il nuovo governo. Se si guarda alla conformazione del nuovo governo, non pochi elementi fanno emergere seri dubbi sulla sua compattezza e sulla sua stessa capacità di attuare un’agenda politica. Prima di tutto, sebbene la vittoria dei partiti facenti parte del blocco fosse stata abbastanza netta, il governo è stato formato solo dopo settimane, un giorno prima della scadenza disponibile (in Israele si torna al voto se non si forma un governo entro 21 giorni dalla formazione della nuova Knesset).
Poi, c’è un’enorme eterogeneità nei membri del governo. Al Ministero della Difesa c’è Yoav Gallant, generale esperto e super falco, era a capo del comando del sud delle forze armate israeliane durante l’Operazione “Piombo Fuso” tra il 2008 e il 2009. Allo stesso tempo, ci sono personaggi come Ben-Gvir (arrestato per un mese dallo Shin Bet nel 2005 per incitamento all’odio contro i palestinesi). Il nuovo governo ha estremisti come Smotrich – il quale, viste le sue idee sui diritti civili, potrebbe benissimo trovarsi d’accordo con Hamas. Ma, allo stesso tempo, la prima mossa del governo è stata nominare come speaker della Knesset un politico dichiaratamente omosessuale: Amir Ohana, membro del Likud ed ex agente dello Shin Bet (i servizi segreti interni).
L’eterogeneità dei membri è aggravata dal caos nelle nomine. Innanzitutto, ci sono ministeri ad alternanza, pratica tipica in Israele, ma mai così tanto come nel nuovo governo. Inoltre, ci sono ministeri interni ad altri ministeri. Il caso principale è quello della Difesa: oltre a Gallant che è ministro della Difesa, l’estremista Smotrich è a capo della sezione del ministero che si occupa degli insediamenti. Quello che è recentemente successo tra i due è emblematico dei rapporti interni nel governo: Gallant ha ordinato lo smantellamento di alcuni insediamenti illegali dei coloni israeliani nella West Bank, nonostante la contrarietà di Smotrich.
La differenza nella qualità tra i vari membri del nuovo governo e il caos nella delimitazione delle competenze tra i vari ministeri si spiega con una sostanziale incompatibilità nelle agende politiche di Bibi Netanyahu e i suoi partner di coalizione estremisti.
Bibi, innanzitutto, vuole perseguire sulla sua classica linea politica: sicuramente con una componente nazionalista, ostile ai negoziati con l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma vuole anche perseguire le politiche fiscali efficaci che hanno reso Israele più ricca, una società aperta, una politica estera (in linea con i suoi rivali politici laici) basata sul rapporto strategico con gli Stati Uniti e sull’intesa con i Paesi Arabi in funzione anti-iraniana, con la priorità della normalizzazione con i Sauditi (Israele e Arabia Saudita da anni sono legati da una cooperazione strategica informale).
Gli estremisti e gli haredim, invece, sognano un’Israele ben diversa: religione al di sopra del patriottismo sionista laico; nessuna apertura ai diritti civili (in barba all’orgoglio di Netanyahu di avere dei compagni politici dichiaratamente omosessuali); palestinesi da trattare come subumani; smantellamento degli equilibri costituzionali israeliani.
Tutto questo rovinerebbe i piani di Bibi. La fine della società israeliana come una società libera metterebbe in crisi la capacità di innovazione di Israele, che Netanyahu ha sempre incentivato. Rovinerebbe inoltre i rapporti con gli Stati Uniti, concedendo tra l’altro leve politiche agli estremisti filo-palestinesi. Violenze su larga scala con i palestinesi in Cisgiordania sarebbero uno sviluppo negativo non solo a livello politico-morale, ma anche strategico: potrebbero mettere in crisi il rapporto con gli Stati Arabi; potrebbero ridare spazio a Hamas e Jihad Islamico; distrarrebbero Israele dal possibile scontro decisivo con l’Iran.
La stessa formazione politica allontana Bibi da alcuni suoi partner: Netanyahu ha legami forti negli Stati Uniti. Si può dire che si sia formato politicamente negli ambienti del Partito Repubblicano; i suoi partner estremisti sono ignoranti in politica estera e provinciali, più vicini alla cultura politica mediorientale che occidentale. Destabilizzerebbero Israele, trasformando l’unica democrazia della regione in un Iran versione ebraica. Questo non significa che riusciranno nel proprio intento, Netanyahu non sposa per niente la loro linea politica. Ma possono dividere internamente Israele e farla cadere in una situazione di stallo.
Come è possibile che siano finiti al governo individui simili? Vi sono fattori strutturali di lungo periodo sui cui si sono innestati fattori estremamente contingenti, che rischiano di avere delle serie conseguenze. In realtà, la linea politica degli estremisti non solo è minoritaria, ma non è nemmeno sostenuta in toto dai loro stessi elettori. Bibi ha fatto leva sui suoi successi in politica fiscale e nella politica di sicurezza (dove i meriti sono più degli apparati strategici), mossa che in un momento di incertezza economica e di maggiori tensioni nella lotta al terrorismo ha pagato elettoralmente. Gli estremisti sono cresciuti nel vuoto lasciato dai partiti vicini all’ex Premier Bennett. Quest’ultimo, dopo anni di propaganda di matrice nazional-religiosa, rendendosi probabilmente conto che l’interesse della nazione viene prima del suo partito, è andato al governo in coalizione con i liberali di Lapid, Gantz, gli arabi-islamisti di Raam e altri partiti per far cadere Netanyahu, giustamente accusato di aver contribuito a dividere la società israeliana (non è un caso che ciò si sia verificato dopo gli scontri con una parte della società araba israeliana nel 2021). Ma la propaganda precedente di Bennett gli si è ritorta contro, aprendo la strada e Smotrich e Ben-Gvir.
Vi è però una dinamica più strutturale: il cambiamento degli equilibri interni della società israeliana. Già anni fa, l’ex Presidente Ruvi Rivlin – nazionalista del Partito Likud ma sensibile nei confronti delle minoranze di Israele e dei palestinesi – parlava di una pericolosa divisione della società israeliana in quattro tribù: gli ebrei laici; gli ebrei nazional-religiosi; gli ebrei ortodossi (in ebraico haredim, “i timorati di Dio”); gli arabi israeliani. Solo i primi due gruppi sono sionisti, cioè fedeli totalmente allo Stato Israele.
Queste «quattro tribù» si innestano su vari ceppi ebraici, pur con delimitazioni non totalmente nette. I laici sono spesso gli ebrei ashkenaziti. Sono gli ebrei che stavano in Europa centro-orientale, specie tra Russia, Ucraina e Polonia, che poi sono all’origine anche della comunità ebraica in America. Tra queste comunità è nato il sionismo che ha portato alla fondazione di Israele. Sono stati gli ashkenaziti a forgiare lo Stato di Israele come laico e democratico, che dà pari diritti politici alle minoranze (checché ne dica certa superficiale retorica anti-israeliana, gli arabi israeliani, che sono palestinesi, godono pienamente di diritti politici). L’altro gruppo da menzionare sono i mizrahi, gli ebrei provenienti dagli Stati mediorientali e magrebini (come i sefarditi). Questi hanno trovato rappresentanza politica nel Likud, dunque nella destra, da gli anni Settanta in poi. Questo non significa che il Likud sia stato fondato da ebrei mizrahi; fu fondato da ebrei originari della Russia, ma esponenti del «revisionismo sionista» di Vladimir Zabotinskij, che si contrapponeva al sionismo di Theodor Herlz. Tuttavia, gli esponenti del Likud, sin dalla nascita di Israele, hanno moderato le frange più estreme, per aderire ai valori democratici di Israele.
Negli ultimi anni, tuttavia, alcune fazioni politiche sembrano aver dato la precedenza alla loro specifica cultura/etnia di appartenenza rispetto all’appartenenza allo Stato di Israele. Nel frattempo, e questo è il grande cambiamento strutturale, sono cambiati gli equilibri demografici nella società israeliana. All’interno dei quattro orientamenti culturali, definiti da Rivlin come tribù, il peso dei laici si è ridotto a favore dei nazional-religiosi e degli haredim. Quest’ultimi, tra l’altro, aggiungono dei problemi nella gestione dello Stato di Israele. Non solo perché i partiti che li rappresentano sono radicali su molti aspetti, ma poiché possono rappresentare un peso in quanto non rientrano nella popolazione attiva, che lavora e produce.
Così, il rischio è quello di mettere in dubbio le fonti di potenza di Israele: i valori laici, il dinamismo economico, un senso di appartenenza nazionale. Netanyahu ha intuito tale cambiamento a favore delle frange nazional-religiose, cavalcandolo. Da un lato, Bibi Netanyahu è riuscito a contenerne le spinte, dall’altro ha trovato conveniente, soprattutto negli ultimi anni, incentivare le divisioni nella società israeliana.
Invece di mantenere l’unità nazionale, ha diviso ancora più la nazione che doveva guidare. Rischia di essere il danno più grande mai fatto allo Stato di Israele recentemente. Nonostante abbia rafforzato l’economia e la sicurezza del Paese, l’utilizzo del potere per aggravare le divisioni della società per fini elettorali, invece di sanarle, rischia di produrre un bilancio negativo per il suo lascito politico. Se l’appartenenza etnico-culturale conta di più della nazione, significa che la nazione è a rischio. In breve: si rischia la “libanizzazione” di Israele. Un sintomo di questa potenziale deriva è ben rappresentata dall’accusa che Lieberman ha rivolto al Likud definendolo, in modo sprezzante, un “partito sefardita”, dunque non israeliano. Il Likud ha capovolto l’accusa definendo Lieberman un razzista. La politica è ridotta ad affare tribale.
I terroristi palestinesi e l’Iran potrebbero solo sognare di dividere la società israeliana nella stessa misura in cui certa classe politica israeliana ha fatto negli ultimi anni. La cosa più paradossale è che ciò avvenga mentre gli arabi sono più integrati, godendo di un benessere economico che possono avere solo in Israele. Come ci insegna la storia, però, i gruppi sociali vogliono aumentare il proprio status, diventando più inquieti, proprio quando la loro condizione migliora. La minoranza araba è importante per Israele. Ma se essa dovesse diventare più inquieta mentre la parte ebraica è in fermento per le divisioni interne, o mentre le frange più estremiste contro gli arabi prendono il sopravvento, il rischio di degenerazioni violente non è escludibile.
Come già visto prima, Netanyahu non ha interesse nel portare avanti l’agenda estremista. Per quanto negli ultimi anni abbia adottato una retorica più demagogica, governando si è sempre mostrato tendenzialmente pragmatico nei dossier strategici. Ma qualcosa dovrà concedere per rimanere al potere, in un momento in cui è accusato di corruzione. A questo punto, un probabile punto di contatto è la revisione dell’indipendenza della Corte Suprema.
I radicali vorrebbero metterla sotto controllo della maggioranza parlamentare. Il governo ha già presentato una riforma che aumenterebbe i poteri del governo nella nomina e nel ribaltare le sentenza della Corte, senza nemmeno prevedere maggioranze speciali a proposito. Non è sbagliato affermare che la Corte Suprema abbia un peso estremamente grande, specie se si pensa che non esiste una costituzione israeliana. Ma è un peso necessario visto l’accentramento di potere sulla Knesset, che rappresenta il luogo di incontro-scontro dei vari ceppi israeliani. Qui entra in gioco l’inaffidabilità di Netanyahu. Quest’ultimo anni fa sosteneva l’importanza di mantenere la Corte Suprema così com’era, ora dice di volerla cambiare.
Tuttavia, la società israeliana si sta muovendo: ogni fine settimana ci sono manifestazioni oceaniche, con il picco il 13 Febbraio a Gerusalemme. Nemmeno tutto l’elettorato e i politici conservatori sono d’accordo. Ci sono varie spinte contrarie alla riforme.
L’enorme sostegno americano allo Stato ebraico si basa sul fatto che Israele è una democrazia, osservazione ripetuta recentemente dall’amministrazione Biden. Questo è un elemento imprescindibile della relazione tra i due Paesi, ma che rischia di essere messo a repentaglio.
Diversi economisti hanno detto che il clima politico creato dagli estremisti danneggerà l’economia israeliana. Inoltre, anche gli apparati strategici si stanno muovendo. Diversi generali e alti militari sostengono che la riforma divide Israele, danneggiando la sicurezza del Paese.
Infine, c’è stata un’altra mossa significativa. È stata recapitata una lettera firmata da tutti gli ex Consiglieri per la sicurezza nazionale alla Knesset che sottolinea come la riforma giudiziaria, se non condivisa, metta a rischio la resilienza nazionale israeliana, che è stata la base dei risultati strategici raggiunti dallo Stato ebraico nel passato. Tra le firme spiccano uomini nominati dallo stesso Netanyahu, come lo stratega Uzi Arad (che era tra i piani alti del Mossad) e l’ex Direttore del Mossad Yossi Cohen, da molti considerato come il successore politico di Netanyahu. Gli apparati strategici israeliani sanno bene che la potenza israeliana deriva dall’avere una società aperta, in cui diverse etnie convivono e in cui gli individui, proprio grazie alle singole diversità, sviluppano le qualità necessarie per rendere Israele un polo dell’innovazione. Non casualmente, i valori della democrazia, della laicità e della libertà, su cui i fondatori hanno eretto Israele, sono conservati nell’esercito e negli apparati di sicurezza. Come dimostrano le vicende di Smotrich e Ben-Gvir, le cui direttive spesso non vengono attuate dalla polizia israeliana.
I punti di forza di Israele sono l’economia innovativa, il potere tecnologico, la capacità delle forze armate, la competenza delle istituzioni e il rapporto stretto con gli Stati Uniti (molto più di un’alleanza, i due sono talmente legati che un funzionario statunitense può avere incarichi governativi in Israele e viceversa). Democrazia e Stato di diritto sono le basi delle fonti di potenza di Israele. Senza questi, il potere di Israele è a rischio. Politici come Ben-Gvir renderebbe Israele meno libera, quindi meno potente.
La cosa migliore per Netanyahu, è mettere da parte il piano della riforma giudiziaria così com’è, e sostituirlo con una riforma della Corte Suprema con consenso delle opposizioni principali in modo da mantenere l’unità necessaria per dedicarsi ai due fronti di cui gli israeliani dovranno occuparsi. Il terrorismo sta rialzando la testa, seppur con attentati fatti da singoli data la difficoltà dei gruppi armati palestinesi. L’altro fronte è l’Iran. La Repubblica Islamica, anche viste le difficoltà interne, sta accelerando nel programma nucleare. Israele potrebbe trovarsi a decidere di agire. Negli ultimi tre mesi ci sono state tre grandi esercitazioni israeliane, in cui hanno preso parte gli Stati Uniti. Nelle ultime settimane, numerosi funzionari americani, tra cui il Direttore della CIA William Burns, hanno visitato Israele. Inoltre, il Mossad ha recentemente colpito di nuovo nel cuore dell’Iran distruggendo una fabbrica di missili.
Lo Stato ebraico ha le possibilità per una sfida simile, ma il fronte interno è il problema. Le divisioni sulla Corte Suprema potrebbero essere il detonatore delle faglie strutturali dei vari ceppi ebraici di Israele. Il Presidente Herzog ha avanzato delle proposte di compromesso sulla riforma. Come sempre, gli apparati statali israeliani – rappresentati dalla saggezza di Herzog e dall’impegni degli ex Consiglieri della Sicurezza Nazionale per avere una riforma della Corte suprema condivisa – possono salvare Israele. Poi, si dovrà iniziare a un rinnovamento più ampio. Altrimenti, il rischio è che gli estremisti si prendano il Paese, distruggendo la potenza di Israele.
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