In un mio articolo pubblicato su Immoderati l’11 novembre 2020 scrivevo: «Dunque la più malefica funzione del pacifismo è che allontana dallo studio del fenomeno sociale più estremo e drammatico, quindi indispensabile per una comprensione migliore della condizione umana e dei rapporti internazionali. Ma, oltre alla sua importanza accademica fondamentale, credo che il ritorno alla Storia militare e gli Studi strategici rappresenti oggi anche una necessità politica. Le classi dirigenti occidentali attuali sono state formate nell’ambito di una supremazia indiscussa nel mondo, cosa che aveva permesso alle loro istituzioni e princìpi di apparire come potenzialmente globali. Questo ha contribuito enormemente alla creazione di un’illusoria onnipotenza istituzionale, alimentata anche dal fatto che tutti furono costretti ad adattarsi al linguaggio occidentale. Quel periodo storico è finito. L’avvento di diverse potenze non-occidentali, e il loro allontanamento sempre più evidente e radicale dalle istituzioni cosiddette internazionali, rende il modo burocratizzato di pensare e agire superato e fuori luogo».
Lasciando da parte che il pacifismo spesso sia intenzionalmente promosso da chi ha interesse a ridurre la determinazione e la volontà di combattere del suo potenziale avversario, ci concentriamo al caso del pacifismo di buona fede, spiegando soprattutto in breve cos’è la guerra. La guerra è il risultato di una pace fallita, marcita, resa impossibile a causa dello sviluppo di rapporti insostenibili. La guerra è una pace che ha smesso di soddisfare le parti, una pace indesiderata, un rapporto scadente e scaduto. L’unico modo per prevenire o risolvere un conflitto è quindi di lavorare sulla divergenza nel concreto e cercare di trovare compromessi soddisfacenti per entrambe le parti. Lo stesso vale per diminuire l’intensità e la durata di una guerra al minimo possibile. Bisogna avere chiare le posizioni soggettive delle parti e anche il loro fondamento oggettivo.
Ma ciò non è detto che possa succedere in qualsiasi stadio della trattativa o del conflitto. Uno dei pregiudizi dei nostri tempi è che il dialogo risolva i problemi, mentre in realtà ciò accade solo in determinati casi, nei quali la volontà e la posizione dell’una parte non rappresenta un effettivo pericolo esistenziale per l’altra, e in cui possono convergere aspettative, interpretazioni della situazione e obbiettivi delle parti. Nei rapporti interpersonali esistono casi nei quali il dialogo è la cosa peggiore da fare, quando le posizioni sono inconciliabili ma non rappresentano minacce dirette per le due parti; spesso ignorare l’un l’altro o divorziare è il miglior rapporto che potremmo avere. Nelle relazioni internazionali però l’uno non può ignorare l’altro, o divorziare; nel caso di inconciliabilità totale delle volontà delle parti c’è la guerra.
In realtà la diplomazia e la trattativa comunque non smette mai, e al contrario continua anche durante la guerra tramite canali ufficiali e non ufficiali. La guerra stessa fa parte della trattativa, in quanto riformula le posizioni delle parti che di fatto si trasformano in analogia al grado che possano o pensano di poter imporle alla controparte. La guerra riequilibra la situazione nel senso che altera il rapporto di forze comportando, infine, l’allineamento delle posizioni. Ovviamente a volte le posizioni sono talmente inconciliabili che l’unico “accordo” possibile è l’eliminazione dell’una delle due parti.
Il pacifista è dunque come un cretino che entra nello studio di uno psicologo durante una sessione di consulenza matrimoniale e ripete continuamente “dai ragazzi, l’amore è sopra tutto, dite no alle liti, il divorzio non è mai la soluzione”, pensando di aiutare. L’energia e il tempo che spendiamo per rispondere al cretinismo pacifista è allucinante e sicuramente qualche risultato positivo in più a prevenire, risolvere e attenuare dei conflitti l’avremmo avuto se esso non esistesse.
Un bell’esempio per il modo in cui si evolvono le trattative e le guerre lo troviamo, come per molte altre cose, nella storia antica. Quando il re Serse invase la Grecia aveva chiesto terra e acqua, cioè la resa incondizionata delle città greche. E infatti varie città accettarono a sottomettersi temendo il peggio. Però dopo la sconfitta pesante della flotta imperiale persiana a Salamina da quella ateniese e greca, Serse d’una parte partì in fretta per la sua corte e d’altra propose agli Ateniesi un’intesa, un’egemonia congiunta persiana e ateniese in Grecia. Gli Ateniesi risposero che finché il sole si alzasse dall’est non si sarebbero alleati a chi avevano bruciato i loro templi. Seguì la vittoria greca a Platea e poi il contrattacco prevalentemente ateniese in Asia minore. I Persiani si videro infine costretti a riconoscere con la cosiddetta Pace di Callia il dominio ateniese nel Mar Egeo e a ritirarsi dalle città greche dell’Asia minore, le quali entrarono anch’esse alla Lega di Delo, cioè l’alleanza ateniese.
Un esempio contemporaneo, indicativo per l’inevitabilità della guerra, è il primo conflitto del Nagorno-Karabakh nel 1988. Il segretario generale Sovietico Gorbaciov aveva allora incaricato il famoso fisico Sacharov, campione dei diritti umani e rispettato in tutto il mondo, a mediare tra gli Azeri e gli Armeni per trovare un accordo. La risposta di Sacharov al termine della trattativa era molto semplice: non c’è niente da fare. Gorbaciov ha mandato l’esercito per ristabilire l’ordine nella regione, ma dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica vi è scoppiata la guerra vera e propria tra Armeni e Azeri. La guerra si è conclusa nel 1994, solo per ripetersi nell’autunno del 2020.
Un esempio dell’ingenuità del pacifismo è d’altra parte l’insistenza per la “smilitarizzazione” o il “disarmo”, quando le guerre c’erano millenni prima degli eserciti e le armi moderni o antichi, e al contrario, una diminuzione della potenza distruttiva degli arsenali avrebbe probabilmente resa la guerra molto più frequente, in quanto gli attori internazionali farebbero più facilmente ricorso ad essa data la sua minore pericolosità.
Il pacifista si presenta impropriamente come difensore di un bene desiderato da tutti, quando in effetti il suo comportamento e il suo modo di pensare sono malefici e aumentano la frequenza e l’intensità delle guerre. Nessun discorso bellicoso e guerrafondaio ha fatto più male al mondo e ha causato più guerre dal pensiero messianico e totalitario che viene esemplificato nei versi della canzoncina “Imagine” dell’autoproclamato profeta del pacifismo John Lennon. Nel suo libro “Intellectuals and Society” il grande Thomas Sowell ha invece dimostrato fra molte altre cose anche le gravissime colpe degli intellettuali pacifisti per la seconda guerra mondiale, i quali avevano impedito le società europee dal prendere coscienza del pericolo che rappresentava Hitler. Otto decenni dopo il pacifismo si sta di nuovo impegnando per favorire una nuova grande tragedia, almeno in Italia, ostacolando la società a prendere coscienza del pericolo rappresentato dal regime putiniano russo.