fbpx
ApprofondimentiEsteri

Il memorandum Crowe: la rivalità nelle relazioni internazionali

Numerosi manuali prestigiosi descrivono questi anni come un’epoca di rinnovata “competizione tra grandi Potenze”. Quasi sottolineando un’ipotetica natura inedita.

Descritta come degenerazione del sistema internazionale avvenuta negli ultimi anni, la competizione tra grandi Stati e Imperi è stata la regola nella storia delle relazioni internazionali. E non sempre fu sinonimo di instabilità.

L’eccezione negli affari esteri è invece rappresentata dalla cooperazione interstatale mediata dalle organizzazioni multilaterali. Dinamica talmente eccezionale da non essere mai esistita. Le istituzioni internazionali, dall’ONU al WTO, sono state inventate dagli Stati più potenti e sono sotto il loro controllo. Inoltre, nessuna organizzazione internazionale ha il potere di bloccare l’azione di uno Stato sovrano qualora questo abbia la potenza necessaria per realizzare i suoi propositi.

Non solo la competizione tra Potenze è sempre esistita, c’è pure chi sostiene sia inevitabile.

Per spiegare tale concetto è utile guardare al contenuto di un memorandum scritto dal brillante funzionario del Foreign Office britannico Eyre Crowe nel 1907.

Tutto partì di una domanda posta da Sua Maestà Edoardo Ⅶ, il quale non riusciva a comprendere perché il suo Impero stesse entrando in conflitto col Reich Tedesco. Com’era possibile che due Stati così avanzati ed etnicamente simili (eravamo in un’epoca in cui il razzismo era ben legittimato dalla scienza), i cui Capi di Stato erano addirittura parenti (Guglielmo Ⅱ era nipote di Edoardo), fossero rivali? E com’era possibile che tale ostilità fosse così grande che l’Impero Britannico venne spinto a riappacificarsi con la Francia – nemico di vecchia data di Londra – per controbilanciare i tedeschi?

Fu così che Crowe scrisse un’analisi sull’impatto che l’ascesa della Germania ebbe sugli equilibri europei. Doveva chiarire se la rivalità tra il Reich e il Regno Unito fosse causata dall’esistenza stessa dello Stato tedesco, dunque se fosse inevitabile, o se fosse il frutto di una specifica linea politica di Berlino, quindi teoricamente evitabile.

Crowe optava più per la prima idea: l’ostilità era strutturale.

Il memorandum iniziò comunque con un elogio verso le qualità intellettuali mostrate dai tedeschi in molteplici campi, le quali erano sicuramente positive per il progresso della civiltà. Tuttavia, gli Statisti britannici non potevano non vedere nella Germania una minaccia, qualunque fosse l’obiettivo delle politiche di Berlino.

Londra aveva infatti due imperativi geopolitici. Il primo era evitare l’emersione di una potenza egemone in Europa. Proprio il Reich tedesco era senza dubbio lo Stato del continente militarmente ed economicamente più potente, quindi l’egemonia continentale era alla sua portata. Il secondo era mantenere la superiorità della flotta, che garantiva il controllo delle vie di comunicazione marittime. Se questi due imperativi non fossero stati soddisfatti, oltre alla dissoluzione dell’Impero, sarebbe stata in pericolo l’ indipendenza della Gran Bretagna. Una potenza egemone in Europa avrebbe mobilitato tutte le risorse del continente per sfidare il dominio marittimo britannico e avrebbe potuto lanciare un’invasione contro le isole britanniche. È per questo motivo che durante i secoli Londra ha sempre agito come una bilancia negli equilibri europei e ha sempre combattuto chi ha puntato alla supremazia continentale, da Napoleone a Hitler.

E la Germania Guglielmina, oltre ad essere lo Stato più forte d’Europa, stava anche costruendo un flotta sempre più imponente.

Crowe su quest’ultimo punto andava ancora oltre. Infatti – come hanno notato diversi storici – se Berlino avesse evitato di rafforzare la propria marina, teoricamente l’ostilità con Londra sarebbe stata più contenuta. Tuttavia, l’ostilità anglo-germanica, secondo Crowe, era strutturale proprio perché il riarmo navale tedesco era quasi impossibile da evitare. Bisognava anche considerare il punto di vista della Germania. Come scrisse lo stesso Crowe: “la Germania avrebbe senza dubbio fatto bene a costruire la marina più potente che si potesse permettere”. Era perfettamente sensato per i tedeschi rafforzarsi militarmente. Non in vista di un obiettivo espansionista, ma per difendersi.

Il punto era che anche qualora Berlino avesse avuto sinceramente solo fini difensivi, il rafforzamento della marina era di per sé una minaccia oggettiva per Londra. Esisteva in quanto tale. Infatti, se la Gran Bretagna si fosse fidata delle buone intenzioni tedesche, i governanti del Reich avrebbero potuto cambiare intenzione da un momento all’altro. Il governo britannico doveva agire sin da subito come se ci fosse stato un piano premeditato dei tedeschi per raggiungere l’egemonia. Bisognava prendere le necessarie contromisure in quanto i tedeschi avrebbero potuto ricercare in ogni momento il predominio. Se si fosse cercato il dialogo, il risultato per gli inglesi avrebbe rischiato di essere identico ma in condizioni di forza più sfavorevoli.

Qui sta la grande lezione di Crowe: uno Stato A giudica se uno Stato B sia una minaccia ai propri interessi sulla base delle capacità oggettive dello Stato B, non sulla base delle sue intenzioni. Le capacità oggettive non possono cambiare facilmente, le intenzioni sì.

Tale dinamica esisteva anche dal punto di vista della Germania. Come avrebbe potuto il governo tedesco evitare di rafforzarsi militarmente sapendo (ma sarebbe stato sufficiente avere anche solo il sospetto) che le altre potenze europee consideravano la sua ascesa una minaccia oggettiva? Prima o poi queste avrebbero cercato di soffocare la potenza tedesca. Il Reich doveva prepararsi a tale eventualità.

Tali dilemmi della sicurezza individuati da Crowe avrebbero riecheggiato in un discorso pronunciato nel 1914 alla Camera dei Comuni dall’allora Primo Lord dell’Ammiragliato del Mare Sir Wiston Churchill, il quale sostenne che per i tedeschi rafforzare la propria marina era “un passatempo”, per la Gran Bretagna era “questione di vita o di morte”. In modo simile, nel 1899 l’Ammiraglio tedesco Alfred Von Tirpiz aveva consigliato al Kaiser Guglielmo Ⅱ di affrettarsi a ridurre il gap della marina tedesca rispetto alle altre flotte in quanto era “questione di vita o di morte”.

Sono dilemmi attuali anche ai nostri giorni e lo si può osservare in tre casi contemporanei.

Il memorandum Crowe viene spesso citato quando si parla della rivalità tra Cina e Stati Uniti. Lo scontro sino-americano ricorda per certi verso quello anglo-tedesco che ha portato alla Grande Guerra.

In ogni caso, è sensato che la Repubblica Popolare cerchi di estendere la propria influenza tramite le Nuove Vie della Seta per sviluppare il suo entroterra e controllare i traffici commerciali attraverso cui passano le esportazioni cinesi e gli idrocarburi che la Cina importa. Queste esportazioni e queste importazioni attualmente passano per le vie di comunicazione presidiate da Washington. Tuttavia, dal punto di vista americano, tali obiettivi cinesi sono inevitabilmente considerati come una minaccia alla sicurezza nazionale, oltre che una sfida al primato statunitense. Un asse eurasiatico antiamericano renderebbe l’America del Nord un’isola quasi sotto assedio, praticamente ciò che sarebbe successo se l’asse Berlino-Tokyo avesse vinto la guerra negli anni 40. Stesso discorso per un’ipotetica egemonia cinese in estremo oriente, che potrebbe minacciare le isole americane nel pacifico.

In politica estera il confine tra difesa e attacco si conferma sfumato. La rivalità tra Pechino e Washington sembra inevitabile anche se la Cina fosse democratica, come affermato recentemente in un articolo apparso su Foreign Affairs.

Il secondo è lo scontro tra Iran e Israele.

Dal punto di vista di Teheran è sensato cercare di estendere la propria influenza in Medio Oriente. La Persia ha avuto storicamente un ruolo egemone nella regione. Inoltre, quando la Repubblica Islamica non aveva la capacità di proiettarsi oltre i suoi confini, la sua sicurezza fu messa seriamente in pericolo. È avvenuto prima con l’attacco da parte dell’Iraq di Saddam negli anni ’80, poi con la pressione americana dopo il rovesciamento del regime baathista iracheno nel 2003. Ovviamente ci sarebbe da dire che gli iraniani estendono la propria influenza in maniera subdola, sostenendo milizie e destabilizzando ancor di più la regione. Anche il recente attacco contro il Primo ministro iracheno sembra confermare che le azioni iraniane sono più quelle di uno Stato canaglia – definizione semplicistica ma non del tutto fuori luogo – che non quelle dell’erede dell’impero persiano. Ma questo è un altro discorso.

Ma dalla prospettiva israeliana si traggono conclusioni molto diverse. C’è uno Stato – l’Iran appunto – che cerca di portare sotto la sua sfera di influenza Iraq, Siria e Libano. Quasi arrivando ai confini israeliani. Aggiungiamoci che questo Stato dice di voler distruggere Israele e che sostiene gruppi armati che hanno organizzato attentati terroristici contro civili israeliani, in alcuni casi sono le stesse forze speciali iraniane a pianificarli, e che nei loro statuti dicono apertamente di voler combattere gli ebrei. Infine, l’Iran sta lavorando ad un programma nucleare. Diviene quindi inevitabile che Israele prenda delle contromisure.

Non deve quindi sorprendere se negli ultimi anni, dall’ascesa dell’eccellente Meir Dagan alla guida del Mossad, i servizi segreti israeliani stiano colpendo la Repubblica islamica in vario modo. Nel 2011 esplose una bomba in una base missilistica in Iran, disintegrandola e uccidendo diciassette Pasdaran. L’obiettivo è però il programma nucleare, che viene sabotato con bombe, attacchi cibernetici (come il virus Stunxet nel 2010) e uccisioni di personalità legate al programma. C’è una lunga striscia di omicidi di scienziati nucleari (presumibilmente) per mano del Mossad. Lo stesso padre del progetto nucleare iraniano è stato ucciso lo scorso anno. Infine, Israele bombarda in continuazione le basi e i depositi missilistici delle milizie – Hezbollah su tutti – al soldo dell’Iran in Siria.

Dal punto di vista di Gerusalemme, uno Stato che ha l’intenzione di distruggere lo Stato ebraico non deve in alcun sviluppare le capacità per realizzare tale obiettivo.

L’ultimo caso è uno Stato la cui politica estera è tra le più criticate in Europa occidentale, ma tuttavia estremamente lucida: la Turchia.

L’espansionismo turco non è solo il frutto dell’ideologia del suo Capo di Stato, ma anche il risultato di una riflessione sulla posizione geostrategica della penisola anatolica.

La stessa integrità territoriale della Turchia fu messa in pericolo quando il declinante Impero Ottomano non riusciva più a proiettarsi all’estero, come dimostrato dal Trattato di Sèvres del 1920.
Di qui per l’establishment strategico turco diventa necessario aumentare la profondità difensiva di Ankara in ogni direzione. Dal mediterraneo orientale al Caucaso, dalla Siria ai Balcani.

Di tali imperativi era consapevole lo stesso Ataturk. Infatti, fu lui il primo a evidenziare l’importanza di Cipro per la Turchia. Poi, sempre lui fu l’ultimo generale ottomano ad arrendersi in Libia durante la guerra italo-turca dell’11-12. Non a caso oggi l’assertività turca è particolarmente visibile sia a Cipro che a Tripoli. Il tutto in ossequio alla dottrina “Patria Blu” di Cem Gurdeniz, un ammiraglio che si definisce kemalista appunto. Dimostrazione che neppure con un laico al governo la politica estera turca cambierebbe. Perfino gli attacchi contro i curdi nel nord della Siria sono dettati da quegli obblighi.

Tutto ciò non significa che siamo condannati a guerre perenni. Crowe infatti parlava di rivalità inevitabile, non di guerra. Lo scoppio della Grande Guerra nel 1914 non fu voluto da nessuno.
L’abilità nella politica estera risiede proprio nel gestire i diversi interessi geopolitici al fine di contenere la rivalità entro limiti accettabili. Evitando di esasperare le tensioni. Il contrario di quanto fatto dai governi europei nel decennio precedente alla Prima Guerra Mondiale.

A tal fine risulta vitale avere un approccio da Realpolitik nelle relazioni internazionali. Mettere in conto la possibilità di scontro permette di studiare in anticipo delle misure, anche per trovare compromessi. Anteporre gli interessi alle ideologie è sempre conveniente: gli interessi sono comunque sempre negoziabili, le ideologie no. E le guerre su larga scala non sono nell’interesse di nessuno.

Leave a Comment

Verified by ExactMetrics