Il patto Aukus tra anglosassoni (firmato il mese scorso tra USA, Regno Unito e Australia) e le massicce incursioni aeree cinesi nei cieli di Taiwan dei giorni scorsi confermano l’importanza dell’Indo-Pacifico, molto più di un’espressione geografica. Si tratta del teatro dove si gioca la partita più rilevante dei nostri tempi: Stati uniti contro Cina. Senza dimenticare il ruolo determinante di Stati terzi, dagli alleati americani anticinesi agli altri Paesi dell’ASEAN.
L’espressione Indo-Pacifico è usata con disinvoltura solo da pochi anni, ma ha radici più antiche. Venne usata per la prima volta già nella metà del diciannovesimo secolo dallo scozzese James Richardson Logan. Fu tuttavia il geografo e storico tedesco Karl Haushofer a impiegarla in senso geopolitico nel 1920, ovviamente senza alcun riferimento alla situazione odierna. Successivamente, comparve in un documento strategico britannico negli anni ’60. Nell’accezione contemporanea si intende quell’area in cui gli americani realizzano il contenimento, messo in campo dalla Settima flotta della US Navy, contro la Cina. Lo scopo è bloccarne le ambizioni egemoniche sfruttando il controllo americano degli stretti e delle vie di comunicazione marittime. Il predominio sui mari è la vera punta di diamante della potenza americana oggi ed era stato il fattore determinante dell’egemonia dell’Impero Britannico nei secoli precedenti, appunto fino al passaggio di consegne agli USA avvenuto nel corso del Novecento. Non è quindi fuori luogo sostenere che l’espressione “Indo-Pacifico” ci dica alcune caratteristiche della sfida tra Washington e Pechino.
In ogni caso, il primo a usare questo termine dandogli il significato odierno – cioè per bloccare la Repubblica Popolare – non fu un occidentale, bensì il Premier giapponese Abe Shinzo in un discorso al parlamento indiano nel 2007. Ben prima dell’annuncio obamiano del Pivot to Asia, il leader giapponese enfatizzava l’importanza di mantenere “liberi e prosperi” i mari dove confluiscono l’Oceano Indiano e Pacifico. In funzione anticinese.
Poi l’espressione Indo-Pacifico comparve nel Libro bianco del Ministero della Difesa dell’Australia del 2013. Infine, venne adottato dal Dipartimento di Stato americano nel 2017 e il Pentagono la usò come nome del comando che si occupa dell’estremo oriente (Indo-Pacific Command).
Da un punto di vista strettamente geografico, la sfida sino-americana nell’Indo-Pacifico si gioca in quell’area che parte dal Mar cinese orientale, scende lungo lo stretto di Taiwan e arriva al Mar cinese meridionale. Acque strategiche e contese, con un’importanza simbolica in alcuni casi. Combinazione micidiale.
Sono acque rilevanti strategicamente in quanto collegano gli oceani Pacifico e Indiano. Poi, dato che si trovano in mezzo a terre e arcipelaghi, vi è la presenza di stretti marittimi e vie di passaggio obbligatorio, ciò che gli analisti di geopolitica definiscono «Choke points» (in italiano letteralmente punti di strangolamento, ma più spesso si traducono nel gergo geopolitico con l’espressione «colli di bottiglia»), da cui passa la maggior parte del commercio mondiale. L’esempio più significativo è lo stretto di Malacca, da cui passa l’80% del petrolio importato da Pechino. Delle isole contese in tali mari invece si perde il conto. Oltre alla questione di Taiwan, c’è la disputa sulla isole Senkaku (o Diaoyutai) tra Cina e Giappone; per non parlare delle isole Paracelso e Spratly reclamate sia dalla Repubblica Popolare che da tutti gli altri Paesi bagnati dal Mar Cinese Meridionale.
Le tensione aumenta ancor di più se le due parti, come a tratti sembra, pensano che stiano giocando una partita a somma zero. Pechino per sfidare Washington nel Pacifico e diventare prima potenza al mondo, obiettivo esplicito dall’ascesa di Xi Jinping, deve necessariamente imporsi nell’Indo-Pacifico e riconquistare Taiwan. Se non dovesse riuscirci c’è il rischio concreto della delegittimazione del regime. Sembra una questione di vita o di morte.
Per gli americani l’egemonia cinese in Asia e Pacifico sarebbe una seria minaccia alla sicurezza nazionale. Inoltre ciò avverrebbe tramite una sconfitta, non per forza militare, degli USA, che ne alienerebbe molti alleati e minerebbe del tutto il morale della nazione e della classe dirigente, che già non gode di buona salute. Il tutto potrebbe avvenire nella situazione di polarizzazione politica odierna, che è senza precedenti e che verrebbe ulteriormente acuita. Sembra esserci una questione di vita o di morte anche per gli USA.
È molto complesso prevedere chi possa vincere in uno scontro sino-americano nei mari dell’Indo-Pacifico. Non solo perché ogni guerra è un evento imprevedibile dove gli elementi di incertezza sono molteplici.
Washington ha, come già detto, una rete di alleanze e di basi che dà alle sue forze armate una notevole capacità di proiezione. Inoltre, la marina americana è più avanti di quella cinese, non solo dal punto di vista degli armamenti, ma anche per quanto concerne l’esperienza e la capacità della US Navy, che è infatti dotata di una grande tradizione strategica.
Tuttavia, la superiorità americana potrebbe essere compensata dai progressi cinesi, come ben noto da anni. Ad esempio, come ha spiegato Graham Allison nel suo libro Destinated for war dedicato allo scontro sino-americano, la Cina dal 1996 in poi ha sviluppato capacità militari anti-access/aerea-denial (A2/AD); cioè missili antinave che possono colpire le portaerei americane fino ad una distanza di 1500 chilometri dalle coste cinesi, quindi alla prima catena di isole (Giappone, Filippine e Malaysia). Situazione alla quale il Pentagono risponde con la dottrina “Air-Sea Battle”, che prevede bombardamenti massicci con missili standoff (fuori gittata) lanciati dai bombardieri a lungo raggio contro i sistemi missilistici antinave cinesi, che permetterebbe alle portaerei americana di operare entro la prima catena di isole.
La sfida cinese è comunque multiforme: investe più ambiti. A differenza della competizione con i sovietici durante la Guerra Fredda, ora non ci sono due sfere di influenza separate. Per questo motivo vediamo molteplici coalizioni in funzione anticinese.
Tra queste c’è il Quadrilatero Securitario (Quad), composto da Stati Uniti, Australia, Giappone e India. Fu istituito nel 2007, ma non decollò fino all’intensificarsi dell’aggressività della politica estera di Pechino. Così il Quad venne rilanciato nel 2017. I quattro membri, pur partendo da agende diverse, stanno intensificando la cooperazione, anche oltre il settore militare e navale. Come certificato dagli incontri sempre più frequenti e dal più deciso allineamento anticinese di tutti i Paesi, dal 2020 anche la storicamente neutrale India e l’Australia, che pure ha legami commerciali importanti con la Repubblica Popolare. A tal proposito, non bisogna sottovalutare le azioni del Giappone, che si muove non solo in supporto agli USA, come mostrato dagli accordi sul trasferimento di tecnologia miliare al Vietnam – altro Stato questo molto anticinese – e dalle intese con l’Australia.
Poi c’è l’alleanza tra le intelligence di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda; cioè i Five Eyes. Intesa dei Paesi Anglosassoni originata durante gli anni ’40 del Secolo scorso e che fu rilevante per tutta la Guerra Fredda e oltre. Adesso qualcuno pensa di estenderla ad altri Paesi come il Giappone, anche se rimangono dei dubbi in merito.
Infine la più recente: il patto AUKUS tra Washington, Londra e Canberra. I tre Stati dei Five Eyes più convintamente schierati contro la Cina. L’accordo consiste nella fornitura all’Australia di sottomarini a propensione nucleare, ciò aumenterebbe la capacità di deterrenza di quest’ultima nei confronti della Cina. Inoltre, i Capi di Governo dei tre Paesi hanno annunciato che coopereranno nei settori della cybersicurezza e delle tecnologie emergenti.
Da notare che i media si sono focalizzati sull’isterica reazione francese. Quest’ultima risulta del tutto ingiustificata per quanto Parigi abbia perso un contratto da 31 miliardi, dati i ritardi dei francesi e visto che i sottomarini francesi erano più arretrati. Tutto ciò mostra come, a prescindere dalla retorica di Biden, gli alleati più importanti per gli USA rimangono le altre nazioni anglosassoni. Inoltre, l’incomprensibile sdegno della Presidente della Commissione europea Ursula Von Der Layen e del Presidente del Consiglio europeo Charles Michel in solidarietà della Francia, manco fosse stato un contratto da cui avrebbero guadagnato gli altri Stati europei, conferma che l’UE non può che essere irrilevante nella questione. Non solo perché le mancano gli strumenti basilari della politica estera, ma soprattutto per l’assoluta mancanza di visione strategica da parte delle classi dirigenti dell’Unione. Su tale questione i nostri governanti non dovrebbero cadere nell’europeismo semplicistico.
Come spiegato da Francesco Bechis su Formiche, la nostra industria e i nostri interessi strategici non sono stati danneggiati in tale contesa e i francesi stanno cercando di europeizzare quella che rimane una questione bilaterale. Poi è evidente che quando i francesi parlano di interesse europeo in realtà intendono il loro. Parlare di autonomia strategica europea non ha senso, soprattutto se intesa nel contesto della sfida tra USA e Cina. Inoltre dividerebbe l’Occidente e non si capisce come avvantaggerebbe l’Italia, dato che sarebbe la Francia ad avere maggior peso. Ammesso e non concesso che una forza armata europea sia effettivamente un progetto fattibile.
Ciò che possiamo fare come Italia e con i nostri partner europei – Regno Unito incluso – è vigilare sulla penetrazione economica cinese. Nell’Indo-Pacifico non siamo di grande utilità. Dal punto di vista militare dovremmo infatti concentrare le nostre forze migliori nel Mediterraneo, per frenare la crescente destabilizzazione dell’area vicina ai confini europei.