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Sanità

I morti costringono i vivi a riflettere

L’età media dei morti di SARS-covid19 è di 79 anni (mediana 81 anni).
Sappiamo che l’aspettativa di vita media per gli uomini italiani è di 80 anni e che è la più alta al mondo dopo quella del Giappone. Con questo non voglio certo scrivere che i settantanovenni morti di coronavirus non avessero il diritto di vivere quell’anno virtuale in più, ma voglio riflettere su un passaggio importante che ancora non sembra chiaro agli italiani: di qualcosa si muore, sempre.
Non c’è la personificazione della morte che viene a bussare scoccato l’ottantesimo anno d’età. La semplice influenza stagionale, che abbiamo compreso essere ben meno pericolosa del covid19, ha causato l’anno scorso circa 8mila decessi, in gran parte tra gli anziani.
Sono davvero poche le persone che muoiono a cent’anni senza particolari cause, addormentandosi definitivamente nel sonno, come sono relativamente pochi i bambini che muoiono a sette anni di leucemia o i quarantenni che muoiono di infarto.
Io sono consapevole che mi restano probabilmente da vivere poco più di 50 anni. Sarebbe fiabesco raccontarsi un futuro diverso, perseverando nella convinzione che la morte capiterà a qualcun altro, mentre io sarò in grado di rimandarla sottraendomi alla realtà.
La morte è una cosa seria e dobbiamo iniziare a prenderla con responsabilità, anzitutto individuale. Magari impareremmo persino a gustarci di più la vita. 
Il Coronavirus fa paura, perché è nuovo e perché ha mietuto molte vittime in poco tempo, ma l’età di queste deve portarci a ragionare con serietà sulla nostra esistenza, che non è mai stata eterna.
Parlando delle terapie intensive, che ho frequentato da studente e che oggi vengono propinate come panacea di ogni male, è importante comprendere cosa significhi per un ottantenne entrare in terapia intensiva e come un ottantenne potrà eventualmente uscirne. Eventualmente, sì, perché anzitutto una persona su due non ne esce. 
Sono questi i dati pubblicati dal Policlinico di Milano e nel picco della pandemia pare abbiano raggiunto punte ben peggiori, confermatemi da alcuni amici intensivisti di Bergamo e Brescia, rispettivamente la città dove risiedo e quella dove ho studiato Medicina.
Tutti i pazienti che sopravvivono vanno inoltre incontro a un deperimento organico generale, spesso vi sono lesioni tracheali dovute al decubito del tubo, a volte complicazioni polmonari dovute alla ventilazione, comprese infezioni resistenti, perché nei reparti intensivi si è costretti a somministrare antibiotici ad ampio spettro, molto potenti, che nel tempo selezionano i patogeni più aggressivi. 
Quale aspettativa di vita hanno i dimessi? Quale qualità di vita? Quale grado di disabilità permanente? Dovranno essere assistiti? E da chi? Dovranno passare allettati il resto della propria vita? 
Sono domande che dovrebbero guidare la pianificazione degli interventi di salute pubblica e che ognuno di noi dovrebbe porsi, prima di giungere al momento della rianimazione. Le risposte si trovano ridotte ai minimi termini in un numero, il cosiddetto QALY (Quality Adjusted Life Years), troppo spesso ignorato.
Dietro alla propaganda della seconda aspettativa di vita del mondo si nasconde un vizio tutto italiano: investire enormi risorse negli ultimi momenti della vita di una persona dopo aver ignorato tutto quanto sia successo prima. Il coronavirus non ha fatto eccezione.
In Lombardia siamo rimasti fermi ad aspettare che i malati si aggravassero e giungessero nelle terapie intensive senza mai promuovere una strategia che indagasse la malattia fuori dagli ospedali e che trattasse preventivamente i malati. Già lo avevo scritto qui più di un mese fa denunciando come un’epidemia non potesse essere curata all’interno dei nosocomi e criticando aspramente la strategia dell’Ospedale in Fiera che a soli due mesi dalla progettazione risulta essere un rudere inedito, un capolavoro d’arte moderna destinato ad un oneroso quanto frettoloso smantellamento. Un’acrobazia politica fine a sé stessa, senza scopo alcuno salvo il compiacimento dei funamboli e il plauso della platea. 
Quando impareremo che efficienza e pianificazione salvano vite umane? Che la sanità pubblica non è un’arte, ma una scienza? Ad ascoltare le parole di ieri dell’assessore Gallera penso di poter rispondere con sicurezza “mai”. Non voglio nemmeno riportarle. Non gli dedicheremo un articolo. 
Ogni prestazione sanitaria ha un costo e quel costo è sostenuto dai contribuenti, niente è gratis ed ogni euro speso per qualcosa è un euro sottratto a qualcos’altro. Un test immuno-enzimatico ELISA, ciò che chiamiamo generalmente sierologico, attraverso l’attivazione di un enzima conferma la presenza di IgG anti-covid19 con un’affidabilitá superiore al 98% e costa dai 40€ ai 70€.
Mentre si spendevano 1500€ al giorno per un ricovero in terapia intensiva gravato dal 50% di mortalità (almeno) e si bruciavano 21 milioni di euro nella costruzione di un ospedale inefficiente, non si investiva negli studi di popolazione, nei test sierologici, nel tracciamento e ancora oggi non esiste un piano strategico definito. 
Sotto accusa la giunta lombarda aveva promesso 20mila test al giorno, numeri distanti diversi ordini di grandezza da ciò che poi sarebbe stata la misera realtà. Mancano i fondi per provvedimenti più incisivi, dicono. No signori, i fondi c’erano, provenivano in larga parte dalla solidarietà della società civile e voi li avete sprecati. Se per incompetenza o per dolo sarà la magistratura a stabilirlo. 
L’attendismo generale ha spinto a tralasciare i malati meno gravi, aspettando che fossero letteralmente in punto di morte per investire con decisione nel trattamento, perché come ricordavo solo in punto di morte la vita di una persona diviene tanto importante da valere 1500€ al giorno, prima non vale nemmeno 40€ una tantum.
Tutto questo si inseriva in 2 mesi di confinamento domiciliare in Italia, dove ogni anno si verificano 4000 suicidi (seconda causa di morte tra 15 e i 24 anni), ogni 3 giorni una donna viene uccisa tra le mura domestiche, più di 3 milioni di persone soffrono di depressione (dato pesantemente sottostimato) e l’80% dei cittadini ha sperimentato una crisi di panico negli ultimi 30 giorni. Quando leggo di “previsioni di crescita” mi domando dove pensiamo di andare con questi numeri.
Succede qui e succede adesso. Anzi succedeva in epoca pre-covid perché questi numeri allarmanti non hanno fatto altro che peggiorare drasticamente durante la quarantena. A nulla sono valsi gli accorati appelli e i grevi moniti degli psicoterapeuti, l’importante è vivere, il “come” è un orpello secondario. 
Vi invito a riflettere su quei numeri: significa che oggi 10 persone si toglieranno la vita, ieri è stato lo stesso e domani sarà lo stesso. 
Questi sintomi estremi non nascono dal nulla, sono la punta dell’iceberg di un Paese che non investe abbastanza sulla qualità di vita perché eternamente concentrato sull’allungamento della vecchiaia. Una vecchiaia che, tra l’altro, non sappiamo nemmeno come pagare.
La risposta al coronavirus non è stata un’eccezione, ma la regola. 

3 comments

Lorenzo Colovini 25/05/2020 at 10:04

dolente ma fa riflettere. Un punto di vista intelligente e drammatico. Complimenti per la lucida analisi

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Dario Greggio 25/05/2020 at 13:07

:D

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Dario 27/05/2020 at 12:15

Bravo

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