Dai romani ai celti, dagli scozzesi agli americani, Halloween ha origini molto diverse, ma di sicuro non è la festa del diavolo.
Se c’è una festa le cui origini sono state non solo dimenticate, ma addirittura pervertite dalla vulgata che la vorrebbe un prodotto americano trapiantato in Italia, quella festa è Halloween, la quale è strettamente legata a una ricorrenza molto più sentita dagli italiani, che la commemorano giusto il giorno dopo, Tutti i santi. Non a caso il nome stesso deriva, secondo una possibile etimologia tuttora in uso, dallo scozzese All Hallows’ Eve (letteralmente “vigilia di Ognissanti”).
Prima di vedere le radici storico-antropologiche di questa celebrazione, solito disclaimer: in questa rubrica proviamo a investigare meglio il viaggio e l’evoluzione delle festività nella storia, ma lungi da noi presumere di poter risolvere temi così complessi in articoli così brevi, che non potranno mai considerare ogni elemento storiografico compiutamente. Se ci sono storici all’ascolto, quindi, prendete quest’articolo come uno spunto e commentate per permetterci di migliorare il nostro lavoro!
Parentalia, Feralia e Rosalia
Può forse sembrare assurdo segnalare che si rinvengono tracce di un proto-Halloween negli antichi riti italici e latini, eppure molti storici hanno individuato dei legami con il culto di Pomona, dea dei frutti e dei semi (peraltro rappresentata da Ovidio con una falce in mano, come la Morte), e con ben tre celebrazioni romane, a cominciare dai Parentalia (o Parentali), festività private che ogni anno, tra le mura domestiche, onoravano i Parentes, ossia i defunti della famiglia. Durante i Parentalia, stando al racconto di Macrobio nei Saturnali, si sospendevano affari e matrimoni, i templi rimanevano chiusi e i magistrati non potevano indossare la toga pretesta. L’unica incongruenza è che si celebravano nei nove giorni che vanno dal 13 al 21 febbraio, discostandosi non poco dal pieno autunno della Notte delle Lumere.
Stando poi a una lettera di Cicerone ad Attico, l’ultimo giorno dei Parentalia, il 21 febbraio, si tenevano le cerimonie pubbliche delle Feralia, la cui etimologia (fero, “portare” in latino, da cui i termini Lucifero, “portatore di luce”, e foriero, “portatore”) rimanda all’usanza di “portare” doni agli antenati presso le loro tombe. Le anime di questi ultimi, sovente fatte coincidere dai Romani con le divinità dell’oltretomba, erano chiamate Mani (“dei benevolenti”) e, durante le Feralia, venivano tributate con offerte e sacrifici a nome della città, data la forte devozione dei Romani nei loro confronti sia nella sfera famigliare che nella dimensione cittadina. Dei Mani parla persino Agostino di Ippona ne La città di Dio (IX, 11), quando, citando Apuleio, riferisce della loro incerta collocazione: «[Apuleio] afferma inoltre che anche l’anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione.»
La principale letteratura intorno a questa ricorrenza è rappresentata dai Fasti di Ovidio, un poema eziologico che si spende lungamente nel raccontarla ai posteri. Il poeta romano, in un passaggio dell’opera (Fasti II, 571-615), ricorda il rito dedicato alla dea Tacita o Muta o Lara, che prevedeva che una vecchia (possibile incarnazione della stessa ninfa Lara) circondata da fanciulle ponesse tre grani d’incenso sotto la porta, legasse dei fili ad un fuso scuro e si mettesse in bocca sette fave nere. Doveva a quel punto bruciare su un fuoco una testa di pesce impeciato e cucito con amo di rame, spargendovi sopra del vino e bevendone il residuo con le fanciulle.
L’origine alimentare delle offerte evidenziava ad esempio il carattere agricolo della ricorrenza, dato che consistevano di ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte, il tutto consegnato su un vaso d’argilla presso i sepolcri, che erano consacrati proprio ai Mani – addirittura urne e sugli oggetti funerari si incideva la sigla D. M., cioè Diis Manibus (in latino, “[sacri] agli Dei Mani”). In caso di particolare devozione, riporta lo storico delle religioni e linguista Georges Dumezil in Archaic Roman Religion (p. 366), erano permesse anche offerte supplementari, ma i morti erano placati solo con le offerte rituali.
Si ritiene che questi tributi fossero una pratica introdotta nel Lazio da Enea, che ispirò l’usanza versando vino e violette sulla tomba di Anchise. Ma la pratica rituale prese piede, racconta Ovidio, quella volta in cui i Romani, impegnati in una guerra, trascurarono di celebrare le Feralia e gli spiriti dei defunti riemersero dalle tombe, urlando e vagando per le strade rabbiosamente. Dopo quell’episodio, furono prescritte cerimonie riparatrici e le orribili infestazioni cessarono.
Impossibile poi non annoverare, come terza festività connessa al culto romano dei morti, i Rosalia, la festa delle rose, durante la quale le tombe dei defunti venivano ornate con rose e viole. Pur essendo una tra le tante usanze religiose che i Romani praticavano in privato per prendersi cura dei morti, la rosatio poteva anche essere offerta alla statua di culto di una divinità, o ad altri oggetti che venivano venerati. Celebrati in diversi momenti dell’anno, ma in particolar modo a maggio – protraendosi spesso fino a luglio -, i Rosalia introdussero i fiori – specificamente le rose e le violette, il cui periodo di fioritura copre tutta la primavera (le viole sono i primi fiori a fiorire e le rose gli ultimi) – come simbolo di ringiovanimento, rinascita e ricordo, il cui colore rosso e viola evocava il colore del sangue, quasi a prefigurare un rito propiziatorio.
In alcune aree dell’Impero, i Rosalia si mescolavano ad alcuni elementi floreali delle feste primaverili organizzate per Dioniso, Adone e altre divinità, ma l’uso delle rose come pratica ornamentale non era strettamente legato a qualche culto particolare, perciò si prestò bene anche alle commemorazioni cristiane ed ebraiche e i primi scrittori cristiani non faticarono a trasferire l’immagine delle ghirlande e delle corone di rose e viole al culto dei santi.
Samhain: il lato occulto di Ognissanti
Fu però lo storico Nicholas Rogers a collegare per primo le origini di Halloween alla celebrazione celtica di Samhain, che per i Gaeli prendeva il nome di Samhuinn (cioè summer’s end, “fine dell’estate”). La vigilia di Novembre era la festività principale dell’antico calendario celtico, in uso 2000 anni fa tra i popoli stanziati in Inghilterra, Irlanda e Francia settentrionale. Questo calendario fissava la fine dell’anno in concomitanza con l’ultimo raccolto, l’ultimo giorno di ottobre, almeno stando alle ricerche degli antropologi John Rhŷs e James Frazer, che individuarono il carattere derivativo di Halloween dal Samhain. Nonostante l’evento si collocasse tra la sera del 31 ottobre e la sera del primo novembre, i festeggiamenti potevano protendersi anche per settimane e ospitavano banchetti, riunioni, battaglie, sacrifici rituali e riti divinatori in nome del dio della fertilità Dagda e della furia guerriera Morrigan, sua moglie. Tutt’ora il Neopaganesimo e la Wicca recuperano il tempo sacro del capodanno celtico il 31 ottobre di ogni anno nella Winternacht germanica (o Winternights) o nello stesso Samhain, scrupolosamente riprodotto dai ricostruzionisti celtisti.
Lemuralia e Ognissanti, ma anche i morti
Quando i Romani entrarono per la prima volta in contatto con le comunità celtiche, i latini avevano già una importante festa dedicata ai morti, i Lemuralia (o Lemuria), che consistevano in riti propiziatori seguiti per esorcizzare gli spiriti dei morti, i lemuri (o spiriti della notte), in cui il pater familias gettava alle spalle delle fave nere per nove volte, recitando formule di buon auspicio. Ancora una volta sappiamo da Ovidio (Fasti V, 473 ss.), che, secondo la tradizione, sarebbe stato Romolo a dare avvio a questa commemorazione per placare lo spirito del fratello Remo, da lui ucciso.
L’incontro tra Celti e Romani determinò una simbolica identificazione del Samhain con i Lemuralia, che poi sarebbero divenuti Ognissanti e che lo storico inglese Ronald Hutton fa risalire a molti secoli prima che diventasse festa di precetto: per la Chiesa romana era il 13 maggio, in Irlanda il 20 aprile, in altri luoghi il 9 o l’11 maggio, in Inghilterra e Germania, invece, proprio il primo novembre.
Nell’835, in piena cristianizzazione, papa Gregorio III istituì la festa delle reliquie cristiane prima dei santi apostoli, successivamente divenuta Tutti i santi, fissandola proprio al primo novembre. Il motivo di tale scelta si rintraccia, secondo Frazer, nella volontà delle comunità monastiche irlandesi di dare continuità al Samhain pagano, in cui si credeva che i morti potessero tornare nei luoghi da loro frequentati in vita e che andassero pertanto onorati e festeggiati. Nonostante Hutton rigettasse la correlazione tra il Samhain e i defunti, data la presunta assenza di prove, la Chiesa volle mantenere a suo modo anche questo legame, istituendo nel 998 la Commemorazione di tutti i defunti (o Tutti i morti) al 2 novembre grazie alla riforma di Oddone di Cluny.
Dolcetto, scherzetto o zucca?
L’usanza del costume di Halloween, che viene ricordato come la festa dedicata all’occulto e alla stregoneria per la sua matrice pagana e le odierne pratiche neopagane, non è dunque una mera “americanata”. Così come chiedere in giro per le case, mascherati in modo macabro, dei dolciumi o degli spiccioli con la frase “Dolcetto o scherzetto?”: «la pratica di mascherarsi risale al Medioevo e si rifà alla pratica tardo-medievale dell’elemosina, quando la gente povera andava di porta in porta a Ognissanti e riceveva cibo in cambio di preghiere per i loro morti il giorno della Commemorazione dei defunti. Questa usanza nacque in Irlanda e Gran Bretagna, sebbene pratiche simili per le anime dei morti si rinvengano anche nel Sud Italia».
E la zucca, simbolo supremo della festa? Quella è cristianissima, anche se gli albori sono sempre localizzati in Nord Europa: anticamente, infatti, in Irlanda e Scozia si usava intagliare rape per ricavarne lanterne con le quali ricordare le anime bloccate in Purgatorio. Quando irlandesi e scozzesi emigrarono in Nord America, sostituirono la rapa con la zucca che, americana com’era, era più reperibile e più comoda da intagliare per le sue dimensioni. Ma perché dare alle zucche un volto spaventoso e grottesco? La risposta sarebbe nella leggenda di Jack O’Lantern, personaggio folcloristico «che fu condannato dal diavolo a vagare per il mondo, di notte, alla sola luce della zucca “scavata” contenente una candela. Poiché il termine inglese per scavare è “to hollow” (e quindi l’atto di scavare è “hollowing”) da ciò deriverebbe il nome Halloween».
Un nome cristianissimo
Tra All Hallows’ Eve e hollowing, come abbiamo visto, sull’etimologia di “Halloween” siamo ancora incerti, ma sappiamo che la parola Hallowe’en risale al 1745 circa. Si tratta di una parola di origine cristiana e significa letteralmente “sera dei Santi” (come d’altronde già detto per All Hallows’ Eve, cioè “vigilia di Ognissanti”). Dopodiché, dato che in scozzese la parola eve è even ed è talvolta contratta in e’en o een, col passare del tempo (All) Hallow(s) E(v)en si è evoluta in Hallowe’en. Siccome l’espressione All Hallows si trova anche nell’inglese antico, non è difficile immaginare come le connessioni tra culture e società abbiano portato quel termine da noi nella forma attuale.
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