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Finestra sull'Europa

Emissioni Volkswagen: condanna difficile ma necessaria

Dieselgate 3Quasi un anno è trascorso dalla scoperta della truffa del gruppo Volkswagen nei test delle emissioni su alcuni dei suoi motori Diesel, operata tramite un software nascosto nella centralina. In Europa si fa ancora fatica ad intravedere una soluzione soddisfacente, concertata a livello europeo, per le autorità e soprattutto per i consumatori. Un segnale forte è invece arrivato dagli Stati Uniti, in cui le autorità hanno raggiunto a fine luglio un accordo con il gruppo su una multa di 14,7 miliardi di dollari, che rimane in attesa di approvazione definitiva. Da sottolineare che la multa è motivata principalmente dalla violazione di regole ambientali.
Qualcosa in Europa si sta muovendo, è vero. In Italia l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha recentemente irrogato a Volkswagen una multa di 5 milioni di € – poco, ma è il massimo infliggibile per pratiche commerciali scorrette secondo la legge italiana – diverse cause di associazioni di consumatori sono pronte, e in Germania verrà celebrato un processo indetto da centinaia di azionisti che, in seguito alla condotta dell’azienda e alla sua incapacità di fornire informazioni tempestive, hanno subito danni economici dal crollo in borsa delle azioni Volkswagen.

Tuttavia, va segnalato che il gruppo non è riuscito a delineare una procedura d’intervento sui veicoli in grado di assicurarne la compatibilità con le normative anti-inquinamento. Si è limitato a istituire dei richiami in officina, che la KBA (l’ente tedesco dei trasporti) ha approvato, ma i cui effetti reali non sono ancora accertati; se però le difficoltà tecniche di ripristino hanno indotto il gruppo ad accettare una maxi multa negli Stati Uniti, in Europa le cose vanno diversamente. Non solo non sono stati promessi risarcimenti consistenti, ma, ad esempio, in Italia i richiami sui veicoli “incriminati” mancano di una fondamentale caratteristica, ossia l’obbligatorietà. In altre parole, i proprietari sono semplicemente invitati a recarsi in officina, ma non sono legalmente tenuti a farlo. Quindi è facile immaginare che ci saranno migliaia di automobilisti che circoleranno con veicoli non meritevoli di omologazione, inquinanti molto più di quanto certificato, e ciò col beneplacito delle autorità.
E’ utile ricordare che quasi tutte la altre case automobilistiche dichiarano sulla carta valori di emissioni superiori a quelli reali; ma ciò è quanto voluto dalla normativa vigente che si appresta ad essere abrogata in favore di test più realistici; la differenza con Volkswagen è che le auto appartenenti a questo gruppo non avrebbero mai superato senza la manipolazione della centralina nemmeno i generosi test di laboratorio. Ma perché è così difficile per le autorità assumere una decisa linea di condanna?

Un serio problema è che questo scandalo è stato prontamente e indebitamente politicizzato nel dibattito pubblico. Per un verso, ha pure perso importanza, soverchiato da crisi più evidenti, urgenti, e mediaticamente appetibili; per altro verso, ha ricevuto spesso approcci estremisti (da chi si augura il fallimento di Volkswagen per ottenere un punticino nell’inutile e tafazziana battaglia Italia-Germania, a chi all’opposto minimizza la gravità della fattispecie) e prese di posizione in strenua difesa del (fu?) gioiello dell’industria tedesca, anche motivate dalla consapevolezza che, vista l’estensione dei danni a imprese, individui e collettività, delle sanzioni pesanti creerebbero seri pericoli alla situazione finanziaria del gruppo. Pericoli che hanno il sapore di bancarotta. Ciò contribuisce a creare un quadro confuso, in cui non si riesce delineare una risposta ai due principali capi d’accusa che interessano l’intera Comunità-Europa: violazione di norme ambientali (e di salute pubblica); condotta dannosa ai danni di imprese concorrenti, per di più in anni in cui l’industria automobilistica ha già particolarmente sofferto per effetto di restrizioni nella domanda.

A queste difficoltà si aggiungono nell’Unione europea almeno due ostacoli tecnici da non sottovalutare:

1) primo, alcuni mesi fa il gruppo Volkswagen ha affermato che la stessa condotta (manipolazione delle emissioni di NOx) figurerebbe come chiaramente illecita negli USA e, al contrario, apparentmente lecita in UE, a causa della discrezionalità che le norme europee conferiscono ai costruttori al momento di preparare i veicoli per i test; difficile però essere d’accordo con Volkswagen visto che anche le norme comunitarie proibiscono espressamente l’uso di “defeat device”, e che del resto la stessa KBA aveva ben presto definito illecito il dispositivo. Tuttavia, è probabile che su questo punto ci sia ancora incertezza a livello legale, e il fatto che la Commissione non si sia ancora pronunciata formalmente non fa altro che aumentarla;

2) secondo, ammesso che di vero e proprio “defeat device” si tratti, la normativa ambientale europea in materia di emissioni di veicoli affida agli Stati membri il compito di stabilire all’interno dei rispettivi confini le misure sanzionatorie appropriate da applicare in caso di violazione. In altre parole, sanzioni nazionali per violazione di regole europee. Tuttavia, si è accertato che molti Stati membri non hanno ancora provveduto a tal fine; ciò significa forse che in assenza di pene nazionali ogni violazione di quelle regole è destinata a restare lettera morta? Difficile sostenerlo: quelle norme hanno comunque valenza obbligatoria, e le mancanze interne di alcuni Stati possono al massimo far ricadare su di essi una quota di responsabilità per il ritardo.

Ci troviamo certamente di fronte a un caso complesso. Per quanto sia desiderabile una de-politicizzazione della vicenda, l’influenza degli interessi nazionali è inevitabile, data l’importanza che riveste il gruppo Volkswagen in termini occupazionali e di PIL in generale non solo in Germania; naturalmente è interesse dei lavoratori e della società paneuropea che le ripercussioni finanziarie per il gruppo non siano tali da costringerlo a una totale ristrutturazione. Ne andrebbe anche della competitività dell’industria europea dell’auto vis-à-vis le industrie di Paesi terzi. Dall’altra parte, però, è interesse dei consumatori e di conseguenza, ancora una volta, della società che di fronte a un illecito sia garantita la riparazione del danno. E ciò anche per evitare di creare un pericolisissimo precedente in un’industria in cui la miriade di regolamentazioni e standard, spesso assai onerosi, può incoraggiare l’adozione di scorciatoie irregolari. Bilanciare tutti questi interessi richiede tuttavia risorse e tempo, e anche immaginando negli USA e nell’Unione lavorino le stesse identiche autorità di controllo, è legittimo concepire che vi siano meno complicazioni in un Paese in cui l’azienda in questione è un concorrente estero e lontano dai leader del mercato. La gestione del caso da parte delle autorità europee, però, non ha fino ad ora dimostrato segnali di grande fermezza e decisione, neppure nella fase di accertamento e di investigazione.

La condanna di Volkswagen in Europa è necessaria, e non certo per motivi di accanimento né tantomeno di pseudo-nazionalismo spicciolo e controproducente. E’ necessaria per la solidità dell’Unione, per due principali motivi: da un lato, perché politicamente parlando una “sanatoria” nei confronti di Volkswagen farebbe serpeggiare tra centri di opinione e cittadini attenti un’impressione di indebita impunità e la convinzione che non c’è poi tutta questa uguaglianza tra Stato e Stato, tra azienda e azienda; sentimenti che non aiuterebbero certo a rafforzare una coesione politica già in piena emergenza; dall’altro lato, perché nonostante il contributo enorme che Volkswagen ha saputo fornire allo sviluppo economico e all’occupazione, la vicenda delle emissioni è un esempio di cattivo capitalismo, di aggiramento delle regole perpetrato a proprio vantaggio e a discapito di concorrenti e consumatori, e non va incentivato. Un cattivo capitalismo che, a dispetto del peso politico ed economico che inevitabilmente il gruppo si porta dietro, merita anzi una sanzione proporzionale, visto che più è alto il potere di mercato delle imprese coinvolte, più è potenzialmente dannosa la loro condotta anti-competitiva.

Punire in modo proporzionato il gruppo Volkswagen significa quindi anche difendere e mantenere intatte le fondamenta liberali, di sana concorrenza, di tutela del consumatore, e di “rule of law” su cui l’Europa si è costruita. Di fronte a ciò, tuttavia, le istituzioni comunitarie paiono esitare oltre il dovuto, anche la Commissione, in cui il fronte sovranazionale ha tradizionalmente tenuto ben a distanza le rivendicazioni dei singoli membri. Questo è preoccupante, perché soprattutto in tempi di crisi di legittimazione le istituzioni sono chiamate a provare la loro efficienza, e questa è un’occasione in più in tal senso dopo i ricorrenti fallimenti sul fronte di altre delicate politiche. Il sistema europeo deve in sostanza saper dimostrare che, volendo, è maturo e pronto a decidere con fermezza al pari di uno Stato unitario, che la Commissione non è composta da 28 “io” indipendenti e frammentati.

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