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Elezioni amministrative: tutto quello che (non) ci hanno detto

elezioni amministrative copertina

Le elezioni amministrative sono da sempre un importante banco di prova per i grandi partiti, che, teoricamente, possono acquisire consensi e credibilità attraverso la gestione dei centri nevralgici del Paese, dal punto di vista economico e culturale. Questo approccio tuttavia presuppone le competenze per garantire un buon governo, la volontà di risolvere gli eventuali problemi delle città, la capacità di costruire coalizioni adeguate al buon governo e, non da ultimo, l’intenzione di governare.

Il lettore è assolutamente libero di pensare che ho scritto quattro banalità e che non c’è motivo alcuno di continuare nella lettura. Proprio perché l’intuizione è corretta, invece, il consiglio è di proseguire fino in fondo. I grandi partiti italiani (e le loro coalizioni) difettano di caratteristiche del tutto banali agli occhi di qualsiasi osservatore anche superficiale.

Qualche dato generale

Il centrosinistra, in tutte le sue forme, ha ottenuto un poco clamoroso, poi vedremo perché, 5 a 0 molto netto nelle grandi città. Includendo le città meno grandi, il computo per il centrodestra resta negativo, anche se in dimensioni meno drammatiche.

Nei 57 comuni con più di 15.000 abitanti in cui il sindaco è stato eletto al 1° turno, il centrodestra ha visto eleggere 20 sindaci, il centrosinistra 18 e i giallorossi 8. I civici sono 6, quelli di destra 4, solo un grillino a Grottaglie. Tuttavia, includendo il secondo turno (sempre nei comuni superiori ai 15.000 abitanti) il risultato complessivo cambia: 42 sono stati conquistati dal centrosinistra, 16 dalla coalizione giallorossa, 30 dal centrodestra e 18 dai civici. In generale, gli schieramenti che hanno raggiunto con più frequenza al ballottaggio sono centrodestra (48 comuni) e centrosinistra (33 comuni). I candidati civici doppiano il M5S 18 a 9, ma sono ben 9 le realtà in cui pentastellati e dem si sono presentati coalizzati al secondo turno.

Il bilancio dei venti comuni capoluogo al voto in questa tornata elettorale è il seguente: centrosinistra, includendo M5S, 15 (+7); centrodestra 4 (-3), centro 1 (=). Rilevante notare che l’unico sindaco di centro è Clemente Mastella, eletto al ballottaggio a Benevento in opposizione a tutti i partiti più grandi.

Le liste civiche confondono le acque e l’area del non voto diventa maggioranza

L’alta astensione è un altro dato molto rilevante. Infatti al primo turno a Roma l’affluenza media è stata del 48,8%, a Napoli l’affluenza del 49,7%, a Torino del 48,1%, a Bologna del 51,16% e a Milano del 47,69%. A Torino e Roma al secondo turno l’affluenza è stata rispettivamente del 42,14% e del 40,68%. Questo dato è dovuto sia alla disaffezione degli ex elettori grillini verso il nuovo corso del Movimento 5 Stelle, sia allo scarso apprezzamento dei candidati di centrodestra da parte dei loro stessi elettori. Il partito degli astenuti è ormai l’elefante nella stanza di qualunque sindaco eletto, che risulta di essere di vedere ridimensionata la propria legittimazione popolare.

Flussi elettorali a Milano – Youtrend

Il proliferare delle liste civiche, infine, rende molto meno banale di quanto si possa immaginare il risultato finale. Youtrend ha calcolato che il risultato complessivo di queste liste supera addirittura il 60%, mentre il primo partito, ovvero il PD, ha raggiunto il 13%. Spesso, tuttavia, le civiche sono delle liste che agglomerano piccole realtà partitiche distinte tra loro o diventano il deposito di candidati vicini a partiti della medesima coalizione.

Flussi elettorali a Torino – Youtrend

Il destracentro ciapa no alle amministrative

Iniziamo con una premessa lessicale, il centrodestra è defunto. La componente centrista è ridotta quasi ovunque ai minimi termini e risulta subalterna culturalmente, più per opportunità che per identità, mentre i sovranisti tengono saldamente le redini della coalizione. Anche se la lotta ingaggiata da Salvini e Meloni dopo la nascita del governo Draghi non ha solo esacerbato le tensioni tra Lega e FDI, che hanno iniziato a litigarsi le fasce più estreme di elettorato, ma ha anche causato una lenta erosione del consenso del Carroccio che è a sua volta teatro di duri scontri tra l’anima centrista-governista e quella massimalista-sovranista.

Il principale problema emerso a questa tornata elettorale per il destracentro è stata la scelta di candidati non competitivi, sintomo che suggerisce un problema ben più profondo: l’assenza di una classe dirigente rinnovata e qualitativamente credibile. Basti pensare ai lunghissimi corteggiamenti di alcuni partiti ad Albertini e Bertolaso, due personalità di assoluto livello ed esperienza, che sono stati esasperatamente ostacolati. Dopo due consiliature all’opposizione, gli unici competitivi a Milano e Roma erano due personalità che oggettivamente appartengono al passato. La scelta finale, oltre che essere arrivata in ritardo, è stata frutto di compromessi al ribasso assurdi. Salvini e Meloni, leader delle due forze principali, non hanno contemplato di provare a vincere nelle loro città, hanno preferito puntare su dei piani B che sono diventati piani C, forse D. A Milano è stato scelto Bernardo, un pediatra-gaffeur che va in ospedale con la pistola, mentre a Roma è stato scelto Michetti, un avvocato diventato famoso negli ambienti di destra come tribuno radiofonico di Radio Radio.

Oltre a Damilano a Torino, uno dei pochi candidati della linea draghiana di Giorgetti, solo Michetti è arrivato al ballottaggio nelle grandi città. Ma sembra un mezzo miracolo. Il link al programma di Michetti sul sito della campagna elettorale ha rimandato alla homepage fino a poche ore dal voto, quando magicamente è comparso con delle scopiazzature risalenti ai tempi di Alemanno e addirittura Stefano Parisi…che però nel 2016 era candidato a Milano. Senza contare la figuraccia all’unico dibattito pubblico con gli altri candidati, da cui se ne andò sbottando senza motivo, le posizioni ambigue nei confronti dei no vax e addirittura delle dichiarazioni in cui suggeriva un nesso di causalità tra l’importanza del ricordo della Shoah con il fatto che gli ebrei “possedevano banche e appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta”. Negli ultimi giorni il nostro si è lanciato in una strana inveterata: “Io non prendo ordini da Bruxelles. Anzi non ci sono mai stato a Bruxelles!”. Tentando così di conquistare l’elettorato pentastellato, che però non si è comportato come auspicato da Michetti, si è inimicato definitivamente i centristi. Il risultato è stata una sonora sconfitta.

A Napoli è stato invece candidato un magistrato, Catello Maresca, durante la campagna referendaria contro la magistratura mossa dalla Lega, che ha imposto l’assenza di simboli partitici durante la campagna elettorale. Giorgia Meloni ne ha confermato il sostegno in extremis. Anche se va considerato che si partiva con poche chance di vittoria, risultato è stato veramente pessimo: 21,88%.

Ciò che palesemente è mancato nel centrodestra, inoltre, è stata la volontà di vincere. Per una coalizione litigiosa e priva di classe dirigente (anche a Bologna il candidato prescelto infatti non era competitivo) la sfida di governare città molto complesse, alcune con problemi enormi da risolvere, non era accettabile. È stato considerato un rischio minore vedere una debacle generale, piuttosto che rischiare di rimanere invischiati in amministrazioni fuori portata.

L’aspetto critico è che il centrodestra, anche dopo il ballottaggio, ha vinto letteralmente solo a Trieste, dove Dipiazza, vicino a Berlusconi, è stato eletto per la quarta volta. A parte un sei stiracchiato dall’ex Cavaliere, che si porta a casa anche la presidenza della regione Calabria, per tutti gli altri ci sono insufficienze: sono state fallimentari sia le scelte della Meloni, sia quelle Salvini ma anche quelle Giorgetti, che ha visto sfumare la vittoria sia a Torino che a Varese. Probabilmente aver flirtato con fasce estreme e molto minoritarie dell’elettorato ha pregiudicato in modo decisivo l’attrattività della coalizione in sé.

L’alleanza giallorossa ha più incognite di prima

Le coalizioni capitanate dal Partito Democratico hanno trionfato al primo turno in tre delle cinque grandi città al voto e non gev a solamente vinto anche al ballottaggio a Roma e Torino. Sarebbe facile e superficiale dire che ha vinto il centrosinistra.

In primis perché non emerge quale sia il perimetro del centrosinistra, visto che in ogni città le coalizioni erano diverse. A Milano si è presentato un candidato dei Verdi Europei, Sala, con una piattaforma aperta ai riformisti, ma che escludeva rigidamente una collaborazione coi 5 stelle ormai scomparsi dal capoluogo lombardo: hanno ottenuto un risultato peggiore di Paragone, leader di Italexit. A Torino, dopo le primarie di coalizione, il PD ha scelto un candidato moderato, Lo Russo, e ha escluso un’alleanza coi cinque stelle, che sono diventati residuali nel capoluogo piemontese in coalizione con Europa Verde. A Bologna i grillini si sono aggiunti dopo che Lepore ha vinto le primarie con l’appoggio delle Sardine e ha costruito una coalizione ampia, che, nonostante una dialettica inizialmente durissima, includeva i liberaldemocratici. A Napoli è stato scelto Manfredi di comune accordo da Letta e Conte, la coalizione includeva Italia Viva ma non Azione, che ha sostenuto la candidatura di Bassolino. A Roma, infine, Raggi e Gualtieri sono andati divisi, dividendosi anche le liste ecologiste, ma è da ravvisare il buon risultato di Calenda e della sua lista di riformisti, liberali e, soprattutto, civici. L’unica costante per i candidati di centrosinistra, tutti vincitori, è l’estrema frammentazione della coalizione, che non sarà affatto semplice da gestire durante il mandato.

Conte e Letta la settimana antecedente al primo turno avevano dichiarato l’impegno di trovare un accordo di collaborazione al secondo turno laddove si erano presentati divisi. La promessa è stata rinnovata anche dopo il voto, ma a Torino e Roma non sono stati fatti apparentamenti. Addirittura a Roma si è animata una fronda anticontiana e ostile al dialogo con i dem, nonostante la dichiarazione di Conte per cui voterà Gualtieri a titolo personale. L’ex ministro dell’economia ha vinto agevolmente il ballottaggio, ma, in termini di voti ottenuti al primo turno ha fatto sensibilmente peggio di Giachetti nel 2016: i voti persi dal PD sono stati ben 38443, quelli della coalizione 25859. La candidatura di Gualtieri era stata disegnata perfettamente per vincere al secondo turno, ma non è stata utile al fine di arginare la perdita di voti. Trend simili si sono verificati anche nelle altre grandi città, soprattutto nelle periferie, ad esclusione di Milano.

In secundis perché l’assenza generalizzata di candidati decenti del destracentro rende difficile valutare le performance del centrosinistra. Emblematico è il caso di Beppe Sala a Milano, eletto con il 57,7% contro il 32% di Bernardo, che ha esplicitamente deciso di non fare campagna elettorale, addirittura ha evitato di fare un comizi e di rilasciare interviste di rilevanza nazionale. C’è da dire che il lavoro di questi cinque anni è stato abbastanza positivo e che quindi la riconferma era nell’aria ma non con queste proporzioni. Per capire come l’assenza di un avversario competitivo sia stata rilevante, basta confrontare la situazione attuale con il risultato di cinque anni fa di Stefano Parisi che riuscì quasi a vincere. Va considerato infatti che nel 2016 il centrodestra era in crescita, ma non godeva delle larghissime fette di consenso che ha oggi a livello nazionale. Alle amministrative la qualità del candidato ha un ruolo determinante sul risultato finale, le grafiche di Youtrend dimostrano come l’effetto sul consenso sia clamoroso.

In terzo luogo i comuni che hanno votato il 3-4 ottobre erano un “campione” circa 13 punti più favorevole al centrosinistra rispetto al dato medio italiano alle ultime elezioni europee. Ciò significa, banalmente, che la sinistra è più forte nei grandi centri urbani, dove la destra fatica a mantenere un livello di consenso elevato come altrove. Inoltre, Bologna è sempre stata governata da partiti di sinistra e a Napoli, da quando c’è il doppio turno, hanno sempre vinto coalizioni di centrosinistra o sinistra radicale: perdere qui era difficile.

Infine è da registrare il crollo del Movimento 5 Stelle, che ha perso tutti i sindaci nei capoluoghi di provincia e che risulta irrilevante ai fini della vittoria dove sostiene candidati del Partito Democratico: 19,09% a Roma, 8% a Torino, 2,78% a Milano, 9,73% a Napoli a fronte a un candidato condiviso che ha ottenuto il 62,88% e 3,37% a Bologna a fronte a un candidato condiviso che ha ottenuto il 61,9%. Tuttavia, va ricordato che i pentastellati hanno sempre faticato alle amministrative e che il primo sondaggio post elettorale di SWG li dà al 16,9% addirittura in crescita dell’1,1%. Anche se altri sondaggi danno un feedback diverso, come EMG che registra un 14,8% in corrispondenza di un calo dell’1,3%, è evidente che la partita a livello nazionale sia tutta un’altra cosa…com’è normale che sia per un movimento d’opinione che ha sembra avuto difficoltà nel radicamento territoriale.

Liberali e riformisti: risultato indecifrabile

La buona notizia per i liberali e i riformisti è il risultato di Calenda che, pur non avendo raggiunto il ballottaggio, ha sfiorato il 20% dei consensi. Ha dimostrato che c’è spazio per costruire un’offerta politica centrale ma non centrista, sicuramente motivata e non moderata. È molto interessante il sondaggio di SWG sull’auto collocazione degli elettori di Calenda: sinistra 6,8%, centrosinistra 50,8%, centro 12,6%, centrodestra 14,5%, destra 1,7%, non collocato 13,6%. Per quanto sia vero che alle amministrative il candidato conta spesso più dello schieramento, questa offerta politica riformista e indipendente dai grandi partiti ha rosicchiato più del 15% a destra, ha offerto un’alternativa a seria al centrosinistra attuale, che lo è poco, e ha anche convinto un discreto numero di persone che non si riconoscono in destra e sinistra. Questa tesi è suffragata dai flussi elettorali tra primo e secondo turno: il 39% di coloro che ha votato il leader di Azione non ha sostenuto Gualtieri al ballottaggio. Da rilevare che i radicali hanno sostenuto Gualtieri con la lista Roma Futura, a cui hanno partecipato anche Volt, Possibile, Green Italia e POP.

Tuttavia, Roma è stato un laboratorio unico in Italia. Altrove, seppur con formule diverse, liberali e riformisti sono andati a ruota del centrosinistra con risultati oscillanti tra il basso e l’inutile. A Milano è stata tentata una lista a sostegno del centrosinistra che coinvolgesse Italia Viva, Più Europa, Azione, Base Italia, Alleanza Civica, Centro Democratico di Tabacci e Lavoriamo per l’Italia di Librandi. Risultato ottenuto: 4,01% a fronte del 57,73% della coalizione, elette due candidate di Italia Viva e Azione. La lista dei radicali, invece, ha ottenuto l’1,07% e non ha eletto nessuno. Da rilevare la lista Milano Liberale, facente riferimento al PLI, che ha ottenuto lo 0,19% a sostegno del candidato sindaco Giorgio Goggi che ha ottenuto lo 0,71%. In sintesi sono risultati molto deludenti per tutti, soprattutto per i riformisti che avevano investito moltissimo su questa iniziativa. In presenza di un candidato riformista nel centrosinistra, che viene addirittura sostenuto, e molto difficile che un cespuglio cresca quanto è accaduto a Roma, soprattutto in assenza di una leadership pesante.

A Torino è più difficile leggere il risultato, perché i candidati sono stati infilati nella lista civica di Lo Russo che includeva un po’ di tutto. Interessante il risultato dei Moderati di Portas che ottengono il 3,38% e avranno 2 consiglieri comunali. Situazione simile a Bologna dove qualche candidato non eletto è finito nella lista civica di Lepore, mentre la maggior parte erano legati alla lista di Isabella Conti, ex Italia Viva, che ha ottenuto il 5, 72%. Come nel caso dei cinque stelle, tuttavia, il contributo risulta irrilevante vista la larghissima maggioranza ottenuta dal centrosinistra. Va sottolineato tuttavia che i 5 stelle hanno ottenuto l’assessorato per Max Bugani, grillino della prima ora, mentre ai libdem non è stato concesso nulla.

A Napoli i riformisti si sono presentati divisi. Azione ha ottenuto un deludentissimo 0,45% a sostegno di Bassolino che ha ottenuto l’8,2%. Napoli Viva, spin off civico del partito di Renzi con l’aggiunta di qualche fuoriuscito da Forza Italia, e i Moderati invece hanno ottenuto rispettivamente il 5,44%, quindi 2 eletti, e il 2,57%, quindi 1 eletto. Napoli Viva è da considerare un esperimento decisamente particolare, uno dei due eletti, Vincenzo Sollazzo, è stato subito pizzicato per aver pubblicato sui social sulla sua bacheca Facebook post e foto inneggianti al fascismo e a Benito Mussolini. Bene, ma non benissimo. Come a Bologna e analogamente ai cinque stelle, l’apporto di queste liste non è stato nemmeno lontanamente decisivo.

Ma quindi chi ha vinto le amministrative?

È legittimo che il lettore arrivato alla fine di questa lunga e dettagliata disamina si chieda quindi chi ha vinto queste elezioni. La risposta, a mio modesto avviso, è che nessuno ha vinto. Innanzitutto è evidente che il centrodestra ha perso e il centro, che assume una rilevanza elettorale laddove si presenta come polo autonomo e non dove va a rimorchio della sinistra, anche. Il buon risultato di Calenda, che rimane tuttavia una sconfitta, non deve essere una lente deformante rispetto al contesto generale. I cinque stelle, invece, hanno perso perché è venuta meno la poca rilevanza a livello amministrativo che era stata faticosamente conquistata.

Sembra scontato, a questo punto, che il vincitore di questa tornata elettorale sia il PD. Il punto è che l’assenza quasi totale di avversari dignitosi, l’appartenenza a una coalizione con un perimetro molto variabile, l’astensione in netta crescita e la proliferazione di decine di liste civiche ridimensionano in parte il risultato dei dem. Va dato atto al centrosinistra, tuttavia, di avere una classe dirigente presentabile, al di là delle idee politiche questo fatto è stato premiante. Proiettando i risultati a livello nazionale, a mio avviso sarebbe una forzatura tanto dire che il PD ha vinto tanto quanto dire che ha perso. Il PD si è limitato a non perdere, acquistare qualche punto e rinviare la discussione alle prossime elezioni. Intanto, si è preso nuovamente il titolo di “meno peggio” e non è poco. Ora avrà anche l’onere di scegliere se intraprendere una strada riformista, ulivista, giallorossa o solitaria, con conseguenze enormi sulla legge elettorale e, quindi, sulla conformazione del prossimo parlamento. Praticamente siamo in mano alle correnti del PD: poteva andare meglio.

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