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Proibizionismo delle droghe pesanti: pensare un’alternativa

I paesi occidentali, ormai da più di un secolo, combattono contro le cosiddette “droghe pesanti” nel farraginoso tentativo di nasconderle, censurarle, ostacolarne il consumo, lo scambio, la vendita, la produzione, l’uso ricreativo o medico, nella vana speranza di poterle cancellare come per magia, senza ottenere risultati. È giunto il momento di riflettere criticamente su questo modus operandi, quello del proibizionismo, e di valutare se possa essere ancora considerato utile e giustificabile o sia il caso di pensare un modello alternativo.

Nelle dichiarazioni pubbliche, negli slogan e nella propaganda benpensante le proposte sono quelle di una battaglia contro la droga come idea astratta, misteriosa e spaventosa. La verità è che non si sta combattendo alcunché di impalpabile, ma contro qualcosa di molto tangibile: la soppressione del fenomeno passa innanzitutto dalla soppressione degli individui coinvolti nel fenomeno. Questi vengono isolati dal tessuto sociale, considerati dei criminali e talvolta apostrofati come pericolosi, sgradevoli, se non addirittura come cittadini di seconda categoria.

Il proibizionismo si caratterizza, già per sua stessa genesi, come una pratica paternalistica, illiberale e gerarchizzante atta a creare divisioni sociali ed economiche, stigma e disprezzo nei confronti di determinati gruppi sociali. I suoi natali, d’altronde, non mentono. 

Storia del proibizionismo in pillole

È poco noto ma le pratiche proibizioniste in materia di droghe pesanti non sono sempre state presenti all’interno del diritto dei vari stati occidentali. Il dibattito sull’uso di sostanze stupefacenti, in particolare negli Stati Uniti, si accende tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento e si concentra innanzitutto sulla condanna al consumo di oppio e cocaina, sull’onda delle pressioni politiche che travolgeranno anche gli alcolici nei ruggenti anni ’20. 

Nel 1909 il presidente Roosevelt promosse la prima commissione internazionale sull’oppio, tenutasi a Shanghai. La delegazione americana fu guidata dal vescovo episcopale Charles Henry Brent e dal dottor Hamilton Wright. Quest’ultimo era stato nominato dallo stesso presidente già nel 1908 primo “commissario per l’oppio” degli Stati Uniti. Wright dichiarò, secondo quanto riporta un articolo del New York Times del tempo, che “la cocaina è spesso l’incentivo diretto al reato di stupro da parte dei negri del Sud e di altre parti del Paese“. Accuse analoghe furono mosse anche verso la minoranza cinese sempre sostenendo la tesi che l’uso di sostanze stupefacenti incentivasse questi specifici gruppi etnici a compiere crimini immondi. 

Il consumo di queste sostanze naturalmente era diffuso anche nella maggioranza bianca e le accuse erano fondate soltanto sul pregiudizio razziale. Questi furono i primi argomenti a favore del proibizionismo.

Nel 1914 fu emanata la “Harrison Narcotics Tax Act“, una legge che non criminalizzava ma tassava il consumo, l’acquisto, la distribuzione e tutte le altre pratiche che coinvolgono cocaina e oppio. La legge subirà successivi inasprimenti e sarà estesa a tutte le altre sostanze definite “narcotici”, fino al 1924 quando verrà infine dichiarata illegale anche l’importazione di eroina per qualunque scopo. 

In Italia ci si mosse nel solco dell’atteggiamento americano. Nel nostro paese il primo provvedimento legislativo in materia di sostanze stupefacenti fu la legge n. 396 del 1923 che puniva con la reclusione da “due a sei mesi e con la multa da lire mille a quattromila” chiunque avesse somministrato al pubblico “cocaina, morfina, loro composti o derivati, e, in genere, sostanze velenose che in piccole dosi hanno azione stupefacente“. 

Il mantenimento della dipendenza

Una domanda sorge dunque spontanea: cosa avveniva prima del 1914 negli Stati Uniti? Le sostanze stupefacenti erano fondamentalmente deregolamentate ed i tossicodipendenti non erano considerati dei criminali ma dei pazienti da aiutare. Quando interpellati i medici prescrivevano l’assunzione di dosi secondo il principio del “mantenimento della dipendenza“, una pratica non tesa a cancellare o sopprimere, ma ad alleviare i bisogni del paziente, permettendo di monitorare il consumo e gestirlo e, se le condizioni lo avessero permesso, ridurlo o sostituire la dipendenza con un’altra meno dannosa. Questa pratica medica fu soppressa poiché ritenuto sbagliato mantenere il paziente “a proprio agio” come sostenuto nella causa Webb v. United States del 1919.

Un cambio di paradigma in corso: sale per il consumo di droghe, depenalizzazione e riduzione del danno

In alcuni paesi del mondo, dopo cento anni di politiche proibizioniste, si è riconosciuto che il modello della repressione è fallimentare: genera isolamento, stigma sociale, criminalità, dolore, disagio, concorre alla diffusione di virus come l’HIV, rinvigorisce mercati sommersi controllati dalle mafie e, soprattutto, produce morte.

Per questo si è tentato di invertire la rotta, cambiare l’approccio. Un esempio particolarmente virtuoso è rappresentato dalla città di Vancouver in Canada, dove è stata aperta la Providence Crosstown Clinic, una “sala per il consumo di droghe”. Un luogo dedicato agli individui su cui non hanno funzionato le varie terapie per arginare la dipendenza da eroina (comprese quelle farmacologiche con metadone, buprenorfina o suboxone). Qui i pazienti vengono trattati da dei professionisti specializzati secondo il metodo del mantenimento della dipendenza ricevendo sostanze controllate, con aghi sterilizzati e in un ambiente organizzato per evitare sovradosaggio e overdose. L’obiettivo è quello di riuscire a reintegrare gli individui nella società attraverso dei servizi di supporto offerti dalla clinica stessa, garantendo al paziente di investire il tempo che prima impegnava nel nascondersi e fuggire dalla legge in maniera più produttiva: lavorando, intessendo rapporti sociali, costruendosi una vita migliore. 

Anche la Svizzera ha diffuso sul suo territorio luoghi dedicati al mantenimento della dipendenza e ciò ha portato immensi benefici: sono diminuite le morti per overdose, la criminalità e la diffusione delle malattie trasmissibili, come l’infezione da HIV. Contemporaneamente, la percentuale di tossicodipendenti che mantiene un lavoro a tempo pieno è triplicata e la loro dipendenza da sistemi di sostegno economico statale si è ridotta sensibilmente. Il beneficio di queste strutture è quindi duplice: individuale e sociale, privato e collettivo. Permettono ai consumatori di avere una vita migliore e questo spesso coincide con l’incentivo a lavorare e produrre ricchezza a beneficio di tutti. L’argomento più forte che si può addurre a sostegno della diffusione di queste strutture è che i vantaggi non sono soltanto dei numeri registrati e stampati su qualche paper scientifico o su qualche articolo di giornale, ma sono ampiamente riconosciuti dalla popolazione svizzera stessa che nel 2008 ha dato un segnale forte tramite un referendum in cui il 68% dei consensi ha confermato che gli effetti di queste politiche sono evidenti e apprezzati.

Ci sono tentativi come quello canadese e svizzero anche in Europa, dove le strutture per il consumo di droghe nel 2018 erano circa 78 sparse in sette paesi, un numero relativamente esiguo, frutto di una visione politica ancora riluttante. Un’eccezione significativa è il Portogallo che già dagli anni novanta ha praticato misure di riduzione del danno, facendo di tutto perché i tossicodipendenti fossero trattati dal sistema sanitario come pazienti senza essere marginalizzati o criminalizzati. Nel 2001 il paese ha depenalizzato uso e possesso di tutte le sostanze stupefacenti e grazie all’impegno dei medici e degli operatori sanitari ha ottenuto straordinari risultati: il consumo generale si è mantenuto alto, ma è crollato quello di droghe pesanti facendo raggiungere al paese il più basso tasso di mortalità per overdose dell’Europa occidentale, un altro esempio di come il superamento del paradigma della proibizione sia benefico ad ogni livello.

Libertà, autonomia e diritto

La pratica del mantenimento della dipendenza, l’istituzione di sale per il consumo e le misure di riduzione del danno sono solo alcune modalità con cui è possibile affrontare il problema delle cosiddette droghe pesanti senza ricorrere all’uso della coercizione e delle forze di polizia. Il dibattito al riguardo è aperto, ma si accumulano sempre maggiori evidenze che sembrano indicare una direzione ben precisa: il proibizionismo e lo stigma delle sostanze stupefacenti, così come la marginalizzazione e la soppressione degli individui tossicodipendenti, non sono una soluzione ma una atteggiamento puritano e intollerante che aggrava la condizione di queste persone e si disinteressa dei pesanti effetti negativi che produce. Questo modello, fatto di divieti e limitazioni, ha fallito e deve essere superato

Non ci si deve soffermare soltanto sugli argomenti funzionali, non si può mettere da parte la centralità dell’individuo e della sua autonomia. Lo Stato non può arrogarsi il compito di essere padre-educatore per i suoi cittadini senza rischiare che questo atteggiamento possa degenerare in derive pericolose. Serve che il valore attribuito all’individuo e alla sua libertà sia superiore a quello del “buon costume” e del “decoro” della comunità, in particolare perché passa proprio dal riconoscimento dell’importanza della libertà, dell’autonomia e del diritto individuale la costruzione di una società davvero decorosa, civile, giusta, che non lasci indietro nessuno e che possa superare il pregiudizio erroneo e pericoloso che associa il tossicodipendente al criminale, quando dovrebbe essere visto piuttosto come un paziente di cui prendersi cura se egli lo desidera, non come una figura incolore e superflua da isolare e sopprimere.

1 comment

Dario+Greggio 24/11/2022 at 18:00

Sì, non dovrebbe essere “stigma per la comunità” ma “per te stesso”: io ho sempre visto le droghe (quale più quale meno) come “modi per sfuggire dalla realtà, dal Fare (!) dal lavorare e dal Vivere”…

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