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Giustizia

Ddl Concorrenza: altra occasione mancata?

Quando venne approvata la Legge n. 99/2009, un sussulto di speranza pervase tutti coloro che credono nel libero mercato e nella libera concorrenza tra gli operatori economici, quale strumento indefettibile per raggiungere livelli di crescita economica duratura. In base all’art. 47 della stessa Legge infatti, entro 60 giorni dalla trasmissione al Governo della relazione annuale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (o “AGCM”), l’Esecutivo sarebbe tenuto a presentare alla camere il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza.

In un Paese dove a ogni ripresa si difendono i Cocchieri e i fabbricanti di carrozze di turno contro l’arrivo nel mercato delle demoniache automobili, sembrava una rivoluzione. Ma come tutte le norme che non prevedono conseguenze in caso di inosservanza, anche l’articolo 47 ha avuto fino a oggi il triste destino di essere lettera morta. Nonostante l’AGCM inviasse puntualmente le relazioni annuali e le segnalazioni ai governi in carica, questi ultimi avevano sempre di meglio a cui pensare.

I Governi Berlusconi e Letta hanno completamente ignorato la norma (nonostante il primo l’avesse varata…), mentre un richiamo è contenuto nel DL liberalizzazioni del Governo Monti che però, dopo l’esame parlamentare, si rivelò mero fumo negli occhi.

Adesso è il turno del Governo capeggiato da Matteo Renzi, premier abituato a strizzare l’occhio al mondo liberale. Ed infatti il Disegno di legge è arrivato in Parlamento. Ma come diceva Milton Friedman, i politici vanno giudicati sui risultati ottenuti, non sulle intenzioni, benché lodevoli.

Le proposte formulate dall’AGCM nella relazione del 4 luglio 2014 riguardavano molteplici settori: Assicurazioni, Banche, Comunicazioni, Distribuzione carburanti, Energia elettrica e Gas, Farmaceutico, Infrastrutture e servizi aeroportuali e portuali, Sanità, Servizio postale, Servizi professionali, Servizi pubblici locali, Società pubbliche.

Concorrenza come modus operandi che indirizzi tutti i settori della nostra economia, al fine di raggiungere efficienza e corretta allocazione delle risorse senza l’intervento dello Stato. Concorrenza che stimoli la produttività e, soprattutto, premi il merito.

Ma nel Disegno di legge arrivato alle camere, alcuni interventi settoriali svaniscono subito nel nulla, finendo nel dimenticatoio politico. Ad esempio non sono rinvenute voci su servizi aeroportuali e portuali, né su servizi pubblici locali e società pubbliche. E gli interventi sulla governance delle fondazioni bancarie? Non pervenuti.

Dei 33 articoli che formano il Ddl, ben 12 (artt. 2-14) riguardano il solo settore assicurativo.  Invece, per i restanti settori, gli interventi si connotano per la loro mancanza di incisività. Fumo negli occhi, again.

Prendiamo in considerazione i servizi postali: mentre l’AGCM suggeriva una valutazione del  <<progetto di privatizzazione di Poste Italiane da realizzare in un contesto di effettiva apertura del mercato e di piena liberalizzazione del settore. In particolare, occorre una separazione societaria delle attività bancarie/finanziarie e una chiara definizione delle modalità di accesso da parte di operatori postali concorrenti alla rete postale in termini di condizioni economiche e regolamentari>>, nel Ddl l’intervento nei servizi postali si limita all’ <<Apertura al mercato della comunicazione a mezzo posta delle notificazioni di atti giudiziari e di violazioni al Codice della strada>>… Non c’è bisogno di evidenziare le differenze.

Idem sui servizi sanitari. L’AGCM suggeriva di introdurre una netta separazione tra le attività di regolamentazione e controllo, detenute a monte dallo Stato centrale, e la fornitura del servizio a valle, in modo da stimolare una sana concorrenza tra strutture pubbliche e private. Di tutto questo, nel capo VII del Ddl dedicato ai servizi sanitari, non c’è alcuna traccia.

Gran parte della proposta legislativa (18 articoli sui totali 33 del Disegno di legge) riguarda i settori assicurativi e dei servizi professionali. Quindi si poteva immaginare una spinta innovativa almeno in questi campi, a differenza degli altri solo sfiorati marginalmente o del tutto ignorati.

Nel settore assicurativo, il testo varato dal Governo sta subendo importanti modifiche alla Camera.  Si tratta di modifiche positive, che provano ad ottenere come risultato un abbassamento dei premi RCA pagati dai proprietari di autoveicoli. Ma non sembra si possa parlare di interventi pro-concorrenza, piuttosto si tratta di imposizioni di nuovi obblighi alle compagnie assicurative. Ad esempio, non sono rinvenute misure effettive per facilitare il cambio di compagnia assicurativa, in un settore dove gli switching costs restano ancora alti.

Dulcis in fundo, i servizi professionali. Le novità principali del Ddl riguardavano le società di professionisti, gli studi multidisciplinari (dove la resistenza degli ordini professionali è molto forte), il notariato e la possibilità per gli avvocati di autenticare la sottoscrizione di un atto di cessione o di donazione di immobile ad uso non abitativo di valore catastale non superiore a 100.000 euro. Quest’ultima parte è stata stralciata a Montecitorio. Non che l’articolo 29 del Ddl fosse un capolavoro, poiché cercava di mettere mano su un capitolo fondamentale della certezza delle situazioni giuridiche in maniera inorganica e grossolana (poi perché quella limitazione di uso e di valore?), ma il rifiuto della politica di aprire alla concorrenza nel settore di competenza dei notai è preoccupante. E di certo l’aumento del numero dei notai da 1 ogni 7.000 abitanti a 1 ogni 5.000, seppur non negativo, non comporta alcuna innovazione concorrenziale degna di smuovere il settore e di ridurre i costi delle transazioni immobiliari, ma semplicemente una maggiore ripartizione della torta notarile.

Per gli studi professionali di avvocati invece, la Commissione Giustizia ha già bocciato la norma del Ddl che prevedeva l’ingresso di soci di capitale. Nel suo parere, la Commissione non chiude ai soci di capitale ed alle società di capitali, ma ritiene fondamentale che i soci professionisti debbano detenere almeno la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci. Al di là della prevedibile frenata, suscita un certo sconcerto il passo del parere approvato dove, con riferimento all’esercizio della professione forense in forma societaria, si legge che ciò  <<possa trasformare tale società in mere imprese con fini di lucro che, in alcuni casi, potrebbero non essere compatibili con quello che rappresenta il fondamentale principio che dovrebbe ispirare l’attività dell’avvocato: la tutela del diritto di difesa del proprio cliente>>. Dal passo si evince tutta l’ipocrisia ed il finto moralismo della giustizia italiana. Nella sostanza vogliono far credere che gli avvocati o gli studi associati esistenti non perseguano da sempre meri fini di lucro! La dietrologia anti-profitto all’italiana è farisaica, essendo risaputo, nonché del tutto normale, che ogni avvocato tende sempre a guadagnare di più, come un imprenditore o un altro libero professionista, e nel farlo sa perfettamente che dovrà cercare di servire al meglio i suoi clienti. Ed ecco che è proprio la ricerca del profitto la migliore garanzia di tutela e del diritto di difesa di ciascun cittadino, prevista costituzionalmente.

La Commissione Giustizia farebbe forse meglio a focalizzare l’attenzione su chi trarrebbe vantaggi da un’apertura alle società di capitali. Di certo ciò non avvantaggerebbe le Top Law Firms, che non hanno bisogno di alcun socio di capitale, essendo i soci professionisti delle stesse ben lieti di spartirsi tra loro i lauti profitti. Chi ne avrebbe un concreto vantaggio sono i giovani professionisti, i quali hanno difficoltà immense nel tentare la strada dell’iniziativa privata, soprattutto nelle grandi città, a causa degli elevati costi fissi. Cosa ci sarebbe di negativo nell’associare il talento e la preparazione di un giovane avvocato al capitale di un soggetto non avvocato che vede in quel talento un’occasione di investimento a lungo termine? Chiedetelo alla Commissione Giustizia, forse vi risponderà che i giovani avvocati non devono mica pensare a guadagnare, ma a difendere i loro clienti.

A guadagnare, ci pensano loro.

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