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Economia & Finanza

Dal quasi bail in al quasi bail out

obbligazioni-senior-subordinate3Sono passate a malapena due settimane dal semaforo verde della Commissione Europea sul piano di salvataggio di Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti, che era stato giudicato compatibile con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato; ebbene, due giorni fa si è materializzata l’ipotesi, firmata PD, di un fondo c.d. “salva-risparmiatori” di 120 milioni di euro – di cui 80 a carico del sistema bancario e 40 a carico dello Stato – per tutelare gli investitori retail che hanno acquistato obbligazioni subordinate emesse dagli istituti decotti e che, pertanto, hanno visto azzerarsi il valore della propria sottoscrizione, subendo la perdita del capitale investito. Alcuni deputati dello stesso partito, inoltre, avrebbero manifestato l’esigenza di estendere l’accesso a tale fondo anche agli azionisti delle stesse banche. Sul tavolo ci sarebbe altresì una proposta alternativa, a firma dell’on. Zanetti, che consentirebbe ai risparmiatori colpiti dal dissesto di ottenere un credito d’imposta del 26% sull’Irpef per recuperare le minusvalenze.

Qualcuno, giustamente, aveva dubitato sin dal principio che l’operazione sarebbe avvenuta a costo zero per lo Stato – leggasi, i contribuenti – adeguandosi, se non alle disposizioni, almeno all’esprit de loi della direttiva 2014/59/UE, meglio nota come BRRD (acronimo di Bank Recovery and Resolution Directive)  che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento, nel quale il ricorso al denaro pubblico per consentire il salvataggio delle banche è proibito – a meno che non vi sia un rischio sistemico per la stabilità e l’integrità dei mercati finanziari. D’altronde, come previsto dall’art. 130 della BRRD, gli Stati membri hanno tempo fino al 1° gennaio 2016 per applicare le nuove disposizioni sulla risoluzione delle crisi bancarie.

Sulle cause del dissesto degli istituti coinvolti si è già dissertato a sufficienza. Abbiamo appreso che le banche – già da tempo in regime di amministrazione controllata – erano tutte accomunate da una gestione disinvolta del patrimonio, che ha permesso alle stesse di condurre per diverso tempo una politica clientelare di erogazione del credito – in altri termini, per semplificare, a elargire denaro a “amici” e “amici degli amici” senza alcuna valutazione tecnica sul merito di credito di questi “amici” -, in spregio alle norme e al nuovo assetto di vigilanza comunitario, ma anche a qualsiasi principio di ragionevolezza e di buona corporate governance.

Il 24 novembre u.s., il Consiglio dei Ministri ha emanato il decreto contenente lo schema dell’intervento di risanamento che prevede la costituzione di quattro banche ponte (le chiameremo, per semplicità, le NewCo.) all’interno del quale sono conferite tutte le attività diverse dai crediti in sofferenza e, dunque, la parte “sana” di ciascuno degli istituti. I contratti di deposito, di conto corrente e le obbligazioni ordinarie sono stati ceduti a questa Newco., in modo tale che i correntisti e i detentori di obbligazioni non subordinate non subissero alcun pregiudizio dal dissesto delle banche. La ricapitalizzazione delle NewCo (per un totale di 1,8 miliardi di euro) è stata posta in parte a carico degli azionisti e dei detentori di obbligazioni subordinate – mediante l’azzeramento del valore dei propri titoli – e, in parte – rectius prevalentemente – attraverso l’intervento del Fondo di Risoluzione, amministrato da Banca d’Italia e alimentato dal sistema bancario, voluto dall’Unione Europea proprio per evitare che dovesse essere la collettività a sopportare il peso di vicende come questa.

Al contempo, è stata costituita una “Bad Bank” nella quale sono confluiti tutti gli asset “cattivi”, con ciò intendendosi tutti i crediti in sofferenza o di dubbio o difficile realizzo. Questi asset, già svalutati da un valore originario di 8,5 miliardi a un valore i 1,5 miliardi, verranno venduti a  specialisti del recupero del credito al fine di ottenerne il realizzo.

Mentre è ragionevole ritenere che la prima parte dell’operazione abbia buone probabilità di andare a buon fine, attraverso l’acquisizione delle NewCo da parte di altri istituti di credito, i dubbi sull’esito della vendita dei crediti deteriorati e del loro successivo recupero appaiono più che legittimi. Si consideri, peraltro, che, come evidenziato in un efficace articolo apparso su LaVoce.info, Intesa San Paolo, in qualità di partecipante pro-quota al processo di risoluzione, ha fatto sapere che in caso di esito negativo, sarebbe la Cassa Depositi e Prestiti (leggasi “lo Stato” e, quindi, di nuovo, i “contribuenti”) ad assumerne l’impegno finanziario.

Nel frattempo, come si è detto, l’on. Michele Pelillo, capogruppo PD nella Commissione Finanze, ha proposto, in un emendamento alla legge di Stabilità, l’istituzione di un Fondo di solidarietà, con cui andrebbero rimborsati “i piccoli o piccolissimi risparmiatori”, definizione i cui contorni non paiono ancora del tutto chiari, ma che dovrebbe comprendere un platea di investitori al dettaglio che, a causa dell’azzeramento del valore delle obbligazioni subordinate, abbiano subito perdite patrimoniali tali da porli in condizioni d’indigenza o di “vulnerabilità economica o sociale”.

Preliminarmente, occorre rilevare che, stando a quanto previsto dalla proposta del pd, gli 80 milioni di euro con cui il sistema bancario sarebbe chiamato ad alimentare il Fondo dovrebbero provenire dalla valorizzazione e dal realizzo dei crediti in sofferenza (quelli che abbiamo chiamato gli “asset cattivi”) da parte della Bad Bank. A parere di chi scrive, anche alla luce dei dubbi richiamati sul buon esito dell’operazione di recupero di tali crediti, è ragionevole ritenere che, in ultima istanza, anche in questo caso sarà la Cassa Depositi e Prestiti ad assumersi l’onere di contribuire al salvataggio dei risparmiatori. Sarebbe più onesto, pertanto, sostenere che il Fondo salva-risparmiatori rischia di essere alimentato integralmente da denari pubblici (devo ricordarlo ancora chi paga, alla fine?).

Circa l’eventualità di estendere l’accesso al fondo anche agli azionisti delle banche, voglio sperare che si tratti di un semplice rumor e che non venga confermato nei fatti. Non occorre una particolare cultura finanziaria per intendere che chi sceglie di acquistare azioni di una società, apportando capitale di rischio, accetta di partecipare agli utili e alle perdite della stessa. Questo vale sia per i soci che detengono azioni ordinarie – e che, dunque, oltre a vantare diritti patrimoniali, sono titolari di diritti amministrativi, tra cui il diritto di voto nell’assemblea – sia per gli azionisti detentori delle c.d. azioni di risparmio – che rinunciano ai diritti amministrativi in cambio di vantaggi patrimoniali. Sarebbe pericoloso far passare il messaggio che investendo nel capitale di rischio di una società si possa accettare di partecipare soltanto agli utili della azienda in cui si investe, scaricando invece le perdite sulla collettività.

Il discorso, invece, è soltanto parzialmente diverso per gli obbligazionisti. Chi investe in obbligazioni, sceglie di prestare denaro alla società emittente, ricevendo in cambio il pagamento di interessi, normalmente periodici (le c.d. cedole), nonché la restituzione del capitale alla scadenza pattuita. La differenza tra una partecipazione azionaria e un investimento obbligazionario è di palmare evidenza. Nel secondo caso, in particolare, l’investitore non ottiene la qualità di socio, né si impegna a partecipare agli utili e alle perdite della emittente: semplicemente, presta del denaro alla società in cambio di una remunerazione sotto forma di interessi. Astrattamente, pertanto, investire in azioni è più rischioso che investire in obbligazioni ed è per questo motivo che le azioni, normalmente, generano un rendimento superiore alle obbligazioni. Anche in questo caso, non è necessario avere ricevuto una particolare formazione per comprendere un concetto così basilare.

Peraltro, va sottolineato che esistono diverse tipologie di strumenti finanziari, tutti riconducibili nell’alveo dei titoli di debito e qualificabili come obbligazioni, con caratteristiche anche sostanzialmente diverse. Rispetto alle obbligazioni ordinarie, ad esempio, le obbligazioni subordinate – quelle coinvolte nel salvataggio delle banche in oggetto – da un lato offrono rendimenti più alti ma dall’altro comportano un maggior rischio per gli investitori: in caso di dissesto della banca emittente, se a coprire le perdite non fossero sufficienti le azioni e gli altri strumenti di capitale, le obbligazioni subordinate possono essere convertite in azioni o, a prescindere dalla conversione, il loro valore può essere ridotto o azzerato. Vale lo stesso discorso che si è fatto paragonando le azioni e le obbligazioni: il fatto di assumersi un maggior rischio viene premiato attraverso una remunerazione più elevata.

Coloro che oggi si schierano a favore dell’ipotesi del fondo di salvataggio sostengono che gli investitori retail non fossero a conoscenza dei rischi nei quali sarebbero incorsi sottoscrivendo tali tipologie di titoli. Nella prestazione dei servizi di investimento, effettivamente, il tema degli obblighi di informazione degli intermediari nei confronti degli investitori al dettaglio è uno dei cardini della normativa nazionale e comunitaria in materia (a partire dalla c.d. MiFID, la direttiva sul mercato degli strumenti finanziari, il cui processo di revisione sta subendo dei rallentamenti per motivi tecnici).

Il problema dell’asimmetria informativa tra intermediario e investitore, del resto, è molto conosciuto anche nelle aule dei nostri Tribunali: la vendita, da parte di banche, di obbligazioni Lemhan Brothers o Parmalat a risparmiatori ignari dei rischi in cui sarebbero incorsi, ovvero di strumenti c.d. derivati altamente complessi e speculativi ad imprese che ricercavano, invece, strumenti in grado di coprire i propri rischi finanziari, è stata all’origine di innumerevoli contenziosi che, a loro volta, hanno determinato la formazione di veri e propri filoni giurisprudenziali sul tema.

Del resto, già tempo fa la Consob, anche su impulso dell’ESMA (l’Autorità europea di vigilanza sui mercati finanziari), ha cercato di porre un argine a questi episodi, prevedendo nel dettaglio le informazioni da inserire nei prospetti, dei documenti informativi in forma sintetica (KIID) e nei regolamenti degli strumenti e dei titoli da consegnare agli investitori preliminarmente alla conclusione di contratti nell’ambito della prestazione dei propri servizi di investimento.

Ed infatti, come confermato alla stessa Consob, nella documentazione sopra citata ed in particolare nel prospetto è riportato l’avvertimento che “’l‘investimento nelle obbligazioni subordinate Lower Tier II comporta per l’investitore il rischio che, in caso di liquidazione o di procedure concorsuali, la massa fallimentare riesca a soddisfare soltanto i crediti che debbono essere soddisfatti con precedenza e che pertanto a scadenza ci possono essere delle perdite in conto capitale di entità più elevata rispetto ai titoli di debito non subordinati”.

Sic stantibus rebus, pur volendo ritenere a tutti i costi i piccoli acquirenti di obbligazioni subordinate delle vittime – dal mio punto di vista, ove accertata la responsabilità degli intermediari, sarebbero comunque delle vittime in concorso di colpa – ritengo sia profondamente ingiusto far ricadere sulla collettività le conseguenze del comportamento truffaldino degli intermediari e della scarsa avvedutezza o degli errori nelle proprie scelte di investimento dei risparmiatori.

Laddove, all’esito delle indagini annunciate dalla Consob o, più verosimilmente, di una class action ovvero di azioni individuali promosse dagli investitori danneggiati, dovesse effettivamente ravvisarsi una qualche responsabilità degli intermediari per aver omesso di trasmettere tale informativa ai risparmiatori ignari, sarebbe giusto che a pagare il conto non fossero i cittadini, bensì i dipendenti delle banche che hanno materialmente venduto o raccomandato tali prodotti ai propri clienti, in concorso con i dirigenti e gli amministratori responsabili di tali scelte commerciali.

In ogni caso, resta da vedere se il giudizio della Commissione Europea relativamente alla compatibilità dell’operazione con la disciplina degli aiuti di Stato, non finisca per essere in qualche modo rivisto alla luce delle nuove disposizioni del Governo, una volta approvata l’istituzione del Fondo.

 

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