Cosa sta provocando la crisi dell’Ilva di Taranto? Per trovare una risposta scorriamo le pagine dei giornali, i commenti degli esponenti delle istituzioni, dell’azienda e delle parti sociali, le voci dei cittadini più o meno organizzati… e le conclusioni possono essere le più disparate.
Sarà stata la famosa esclusione della clausola di immunità, l’impossibilità di far funzionare tutti gli impianti, la pesante crisi di mercato che ha ridotto la richiesta di acciaio. Oppure, all’opposto la richiesta di chiuderli tutti questi impianti in attesa di farne altri, o meglio (o peggio), di fare altro. Sotto sotto, traspare una voglia unificante di intervento dello stato.
Chi per farlo subentrare nella proprietà, altri per assicurare il reddito dei lavoratori danneggiati. Quanti non è lecito sapere data la vastità delle ricadute economiche della riduzione o della chiusura del sito produttivo.
Da tempo mi sono convinto, e l’ho anche scritto in alcuni articoli pubblicati, che il principale problema per la continuità produttiva dell’Ilva sia rappresentato dal venir meno del comune sentire della comunità tarantina verso l’azienda in questione.
Negli anni Novanta, quando ero il Segretario confederale della CISL nazionale, con la delega per i settori industriali, ho frequentato assiduamente il territorio di Taranto e le vicende dell’ex Italsider legate soprattutto alla riduzione progressiva del personale impiegato.
Le discussioni erano accese, le posizioni articolate. Ma per tutti gli attori coinvolti: istituzioni, azienda, sindacati, associazioni locali l’Ilva veniva considerata un patrimonio intangibile della comunità.
Tutto questo è venuto progressivamente meno con l’avvento della privatizzazione, poi con l’affondamento dei nuovi proprietari con un concorso attivo della magistratura, sino al consolidarsi dell’idea che dell’Ilva se ne potesse fare a meno, in nome di veri o presunti problemi ambientali. A patto, ovviamente, di campare assistiti dello stato.
Il forte consenso attribuito dai tarantino a 5 stalle altro non è che l’espressione tangibile di questa deriva. Pazienza se vanno alla malora gli stipendi buoni, in un’area dove dilaga, fuori controllo, il lavoro nero.
Sullo spostamento degli interessi ha pesato enormemente la riduzione progressiva del personale impiegato direttamente nell’azienda e nell’indotto, che che negli anni Novanta rappresentano ancora circa il 30% degli occupati dell’intera provincia tarantina. Una quota stimabile attualmente intorno al 12%.
Ricostruire un compromesso ragionevole tra produzione, lavoro e ambiente è tecnicamente possibile. Nelle condizioni attuali non lo è sotto l’aspetto sociale e politico. Purtroppo questa deriva non riguarda solo il territorio tarantino.
È una tendenza che sta corrompendo la comunità nazionale, i suoi veri desiderata, e che riversa il consenso di una parte significativa della popolazione verso le forze politiche che a turno promettono di risolvere i problemi a colpi di provvedimenti assistenziali aumentando il debito pubblico.
Come evidenzia Luca Ricolfi, l’Italia, insieme alla Grecia, sono gli unici paesi ad avere una popolazione produttiva, senza contare i minori, significativamente inferiore a quella che vive sulle sue spalle.
“Quando il mercato fallisce deve intervenire lo stato” afferma sulla stampa l’ineffabile ministro Francesco Boccia.Trascurando che buona parte dei guai dell’Ilva, veri o presunti, provengono dalla gestione statale dell’Ilva.
Ma soprattutto che una eventuale nazionalizzazione dovrebbe fare i conti con gli stessi problemi, a partire dai vincoli ambientali, alla indisponibilità degli impianti e di dover vendere l’acciaio a condizioni di mercato.
Cosa che vale ovviamente anche per Alitalia laddove è già evidente il costo della nazionalizzazione dei debiti legati alla mancata vendita dei servizi. Lo Stato “interventista” tranquillizza tutti. Quelli che desiderano la chiusura, le aspettative di aver un reddito assistito vita natural durante, ed anche coloro che, più realisticamente, devono fare i conti con il numero dei lavoratori in esubero.
Ma tutti tranquilli… sullo sfondo si affaccia la prospettiva di “un grande green new deal” come afferma il frastornato Presidente Giuseppi. L’emblema della nuova Italia, tutti al verde!! A partire dalle nostre tasche.