Altri errori e dimenticanze: l’elasticità di sostituzione tra capitale maggiore di uno ed il ruolo trascurato di avanzamento tecnologico, innovazione ed istituzioni politiche.
Al fine di mettere in relazione il costante aumento del rapporto capitale/reddito (β) e l’aumento della quota di capitale nel reddito nazionale (α), Piketty va oltre e cerca di dimostrare che questa correlazione positiva è dovuta ad una elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro (σ) maggiore di uno.
“Per un lungo periodo di tempo, l’elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro sembra essere stata superiore ad uno: un aumento del rapporto capitale/reddito β sembra aver portato ad un leggero aumento di α, la quota di capitale nel reddito nazionale, e viceversa “(Piketty, 2014: 220-221).
Piketty prevede che, sulla base dei dati storici (con molti pochi riferimenti accademici, a dir la verità), si può stimare un’elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro (σ) nell’intervallo di 1.3 e 1.6.
Secondo quanto riporta la stragrande maggioranza dei paper più recenti, questa ipotesi sembra completamente erronea. Secondo Rowthorn (1999), su 33 diversi studi econometrici che si riferiscono a diversi settori e paesi, solo 7 hanno mostrato un’ elasticità di sostituzione maggiore di 0,8. Molti di questi studi invece non hanno nemmeno stimato un’elasticità superiore a 0,5. Un più recente paper di Klump (2007) dimostra come, sia negli Stati Uniti che nell’Euro zona, l’elasticità aggregata non supera lo 0,67, mentre uno studio condotto da Chirinko (2008) ha concluso che “il peso delle prove suggeriscono che l’elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro (σ) risulti essere nella gamma tra 0,40 e 0,60 “.
Piketty giunge alla conclusione sbagliata perché il suo modello si basa sul presupposto errato che β, il rapporto capitale/reddito è costantemente aumentato dalla fine degli anni ’70 ad oggi. Recenti stime pubblicate da Chirinko e Mallick (2014) e Thwaites (2014) dimostrano al contrario come il rapporto capitale/reddito (β) sia rimasto stabile negli ultimi decenni e che l’aumento identificato da Piketty sia dovuto principalmente al così detto “valuation effect “dovuto allo sproporzionato aumento in valore di alcuni assets, come – ad esempio – le case. Inoltre, come suggerisce Rowthorn (2014), invece di concentrarsi, sbagliando, sull’aumento di β, “una spiegazione più plausibile per l’aumento della quota del reddito dei” proprietari di ricchezza” è un tasso eccessivamente basso di investimenti in capitale reale”.
Proseguendo nella lettura del libro, ci si può accorge di altri difetti presenti nel modello “pikettiano”.
Alla fine del sesto capitolo (pagine 199-234 della versione inglese, quella utilizzata), dopo una lunga analisi sul capitale, Piketty conclude che nel corso di questo secolo, sarà molto probabile (ipotizzando un tasso costante di rendimento del capitale del 4-5%) che la quota di capitale sul reddito nazionale supererà i già elevatissimi livelli osservati durante “l’età dorata”, periodo storico che coincide con la seconda metà del 19° secolo e deve il suo nome ad un libro di Mark Twain pubblicato nel 1873, intitolato “The Gilded Age: A Tale of Today”.
Se da un lato le previsioni sul potere del capitale vengono analizzate a fondo nel libro (soprattutto nella prima parte del libro), dall’altro il professore francese si dimentica quasi totalmente di parlare del ruolo importantissimo svolto dalla tecnologia e da istituzioni politiche sempre più democratiche nel corso di questi ultimi 200 anni di storia.
Inoltre, secondo Deirdre McCloskey, docente di economia presso la “University of Illinois”, il racconto di Piketty non tiene in considerazione dell’evento più importante della storia moderna: la progressiva affermazione del “liberalismo” e la conseguente nascita di una nuova forte classe imprenditoriale: la borghesia.
Tra la fine del 18° secolo e l’inizio del 19° secolo, la borghesia divenne gradualmente la classe dominante sia in Europa che in America del Nord non a causa di un’accumulazione di capitale sempre maggiore (come Piketty cerca poco convintamente di sostenere), ma grazie alle idee innovative, alla dignità e alla virtù della stessa (McCloskey, 2006).
Dai primi decenni del 19° secolo, la tecnologia e l’innovazione hanno sconvolto (positivamente) l’intero mondo occidentale. Secondo quanto riporta sempre McCloskey (2010) nel corso di questi ultimi 200 anni, il reddito pro-capite del lavoratore medio nei paesi più avanzati è aumentato di un fattore pari al 2900 per cento, mentre, se si prendono in considerazione anche i paesi meno sviluppati, tale fattore si attesta al 900 per cento. Tutto questo, quindi, ci fa presupporre che il capitalismo, inteso (per dirla alla Piketty) come sistema economico basato sulla proprietà privata, non sia assolutamente, di per se, la causa fondamentale della disuguaglianza economica.
Diversi paper accademici, come ad esempio, quello di Branko Milanovic, Peter Lindert e Jeffrey Williamson (2011), non causalmente tentano di dimostrare come la disuguaglianza economica non sia una caratteristica peculiare del solo sistema capitalista moderno, ma sia il minimo comune denominatore di tutte le epoche storiche, a partire dalle prime società agricole.
Se, nel 1800 i nostri antenati vivevano con l’equivalente di circa 3 dollari al giorno (al netto dell’inflazione), nei primi anni di questo secolo, noi – fortunati residenti dei paesi sviluppati – possiamo permetterci di vivere con l’equivalente di circa 100 dollari al giorno. Grazie al ruolo svolto da istituzioni politiche più democratiche, da una maggiore libertà economica, dalla dignità del ceto medio, dalle idee dei piccoli e medi imprenditori, dalla distruzione creativa e dal progresso tecnologico, la maggior parte del “restante 90% della popolazione” descritta da Piketty non è in realtà né povera, né sfruttata da cattivi, ricchi “capitalisti”.
Oltre a tutto questo, descrivere la disuguaglianza economica nei paesi industrializzati con ingannevoli e semplici “principi generali” non è assolutamente sufficiente per capire la relazione tra disuguaglianza e capitalismo.
Un chiaro esempio di ciò è dato dal seguente fatto: in tutte le attuali economie occidentali, la stragrande maggioranza degli individui, etichettati da Piketty come “the bottom 90%”, è in grado di godere di tutti i piaceri della vita: vacanze, una casa confortevole, una o anche due auto, l’ultimo I-Phone, più di un televisore e tutte le altre più recenti tecnologie in commercio.
Duecento o cento anni fa, la realtà era molto diversa (come narrato sia da Jane Austen che Honoré De Balzac, autori utilizzati ampiamente da Piketty all’intero del suo libro) e il divario reale tra i super-ricchi e il resto della popolazione era ancora più grande, nonostante simili coefficienti di “Gini” o regole generali di “Piketty”.
Questa critica al lavoro di Piketty, naturalmente, non vuole sminuire l’importanza della disuguaglianza economica, ma vuole cercare di evidenziare il fatto che analizzare il divario storico tra ricchi e poveri attraverso un paio di semplici formule matematiche non risulta essere, né politicamente, né soprattutto accademicamente, la scelta giusta e corretta da seguire.
Lo sviluppo delle idee, un costante progresso tecnologico ed un notevole miglioramento delle condizioni umane sono stati possibili anche grazie all’introduzione di istituzioni politiche ed economiche sempre più “inclusive”. Come sostengono Daron Acemoglu e James Robinson (2014), il modello sviluppato da Piketty risulta essere sbagliato perché la teoria di Piketty – così come quella di Karl Marx nei decenni centrali del XIX secolo – non tiene conto della centralità delle istituzioni politiche ed economiche.
Secondo quanto riportato dai due professori americani (Acemoglu et al, 2005) e’ proprio lo sviluppo di istituzioni politiche ed economiche più democratiche che, nel corso di questi ultimi due secoli, ha permesso a molti paesi per migliorare significativamente le condizioni della società. Nel modello da loro riportato, le istituzioni politiche definiscono la distribuzione sia del cosiddetto potere politico “de-jure” che del potere politico “de-facto”. A loro volta, questi due tipi di potere politico determinano lo sviluppo delle istituzioni economiche e la stabilità ed il futuro cambiamento delle istituzioni politiche stesse. Al tempo stesso, poi, sono le istituzioni economiche che modellano l’evoluzione della tecnologia, l’impatto l’offerta di competenze e performance economica influenza e, in ultima analisi, la disuguaglianza.
Vedi anche Critica de “Il capitale nel XXI secolo” – Parte 2°
Bibliografia:
Acemoglu, D. and Robinson, J. (2014). “The Rise and Fall of General Laws of Capitalism”. 1st ed. [ebook] Available at: http://polisci2.ucsd.edu/pelg/AcemogluRobinsonGeneral%20Laws.pdf [Accessed 12 Jan. 2015].
Acemoglu, D., Johnson, S. and Robinson, J. (2005). “Institutions as Fundamental Determinants of Long-Run Growth”. In: P. Aghion and S. Durlauf, ed., Handbook of Economic Growth Volume 1A, 1st ed. Amsterdam: North-Holland, pp.385-472.
Chirinko, R. (2008). “σ: the long and short of it”. 1st ed. [ebook] Chicago: University of Illinois. Available at: http://file:///C:/Users/HP/Downloads/cesifo1_wp2234.pdf [Accessed 15 Jan. 2015].
Chirinko, R. and Mallick, D. (2014). “The Substitution Elasticity, Factor Shares, Long-Run Growth, And The Low-Frequency Panel Model”. 1st ed. [ebook] Available at: http://as.vanderbilt.edu/econ/sempapers/Chirinko.pdf [Accessed 15 Jan. 2015].
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Milanovic, B., Lindert, P. and Williamson, J. (2011). “Pre-Industrial Inequality”. 1st ed. [ebook] The Economic Journal. Available at: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1468-0297.2010.02403.x/pdf [Accessed 15 Jan. 2015].
Rowthorn, R. (1999). “Unemployment, wage bargaining and capital-labour substitution”. Cambridge Journal of Economics, 23(4), pp.413-425.
Rowthorn, R. (2014). “A note on Piketty’s Capital in the Twenty-First Century”. Cambridge Journal of Economics, 38(5), pp.1275-1284.
Thwaites, G. (2014). “Unbalanced growth, secular stagnation and the relative price of investment goods”. 2nd ed. [ebook] Available at: https://editorialexpress.com/cgi-bin/conference/download.cgi?db_name=MMF2014&paper_id=140 [Accessed 15 Jan. 2015].
1 comment
Ciao, tu dici che si dovrebbe scorporare il valuation effect dal capitale, ma allora andrebbe preso in analisi anche il suo effetto sui redditi da lavoro, visto che se un appartamento costa di più i redditi dovranno adeguarsi per permettere al lavoratore di acquistare o affittare casa. Inoltre Piketti evidenzia nel libro il ruolo dell’innovazione tecnologica, citando peraltro l’interessante studio http://www.nber.org/papers/w18315
Che poi la democrazia ed il liberismo abbiano influito sull’economia e la distribuzione di ricchezza, piuttosto che il contrario é tutto da dimostrare. Comunque grazie dell’articolo!