C’è differenza tra un Presidente buono e un buon Presidente: se lasciamo il giudizio sul secondo agli storici e al mondo della politica, senza dubbio si può affermare che Carlo Azeglio Ciampi, nato il 9 dicembre di un secolo fa a Livorno, era un Presidente buono. Rispettato e amato, manifestazione di stabilità e professionalità, nonché di rispetto istituzionale; di quella rara burocrazia creativa, intelligente, sobria, qualificata e competente. Ciampi era una garanzia di credibilità e stabilità sia in Italia che in Europa. Votato da entrambi gli schieramenti della cosiddetta Seconda Repubblica come decimo Capo dello Stato (1999-2006), tra gli italiani godette di un supporto notevole, cosa inusuale per “i politici” ma relativamente costante per i presidenti della Repubblica. E Ciampi, per indole e cultura, ha sempre mostrato un forte senso di apertura ed empatia istituzionale nei confronti dei cittadini italiani.
Ciampi aveva studiato all’Università di Lipsia; il tedesco lo conosceva bene e in questo senso era molto degasperiano, dal momento che lo statista altoatesino era stato Deputato a Vienna nel 1911. Come Alcide De Gasperi, aveva anche una concezione dell’Unione Europea, se non utopica, quanto meno ideale; una sorta di pacifica federazione di popoli, non un agglomerato di burocrazie statali ma una coalizione di stati sovrani uniti dalla cultura occidentale comune e dall’apertura nei confronti del mondo che a principio degli anni Duemila si stava sempre più globalizzando. Nonostante la proiezione e la postura “nordica” che Ciampi adottò ben prima del suo arrivo al Quirinale, allo stesso tempo il Presidente fu promotore del ruolo dell’Italia nel mondo. Sotto il suo settennato, infatti, l’Italia ha esplicitamente riscoperto per un breve momento il suo essere nazione. Ciampi era affezionato alla Patria per la quale in gioventù aveva combattuto il Nazifascismo. Cosa che fece anche il suo predecessore al Colle, quel Sandro Pertini del quale condivideva sì la popolarità e la battaglia della Resistenza, ma non il carisma e lo spirito battagliero.
Una delle fortune della Storia della Repubblica italiana è che, soprattutto recentemente, ha avuto buoni presidenti della Repubblica. Chi più chi meno, proprio partendo da Pertini, poi Francesco Cossiga, fino a Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano a Sergio Mattarella tutti gli inquilini del Colle si sono impegnati per dare armonia istituzionale ad un paese il più delle volte sfilacciato, disunito e dove l’assenza di senso di unità nazionale era ed è la cifra comune nella popolazione della penisola. In aggiunta – cosa che condivide con l’attuale Capo dello Stato – Ciampi non era una figura divisiva. Certo, essendo stato “un banchiere” riceveva le solite accuse di massoneria e complottismo: alcuni lo accusarono di aver “svenduto” assieme a Romano Prodi l’Italia e la potentissima Lira ai tedeschi e all’Europa dei tecnocrati. Tuttavia, il capitale di fiducia dell’ex Governatore della Banca d’Italia (1979-1993), non è mai venuto a meno nella stragrande maggioranza della popolazione; quella, si spera, che aveva capito che il proprio paese non poteva andare avanti a furia di incrementi di debito pubblico e svalutazioni competitive in un mercato complesso ed interdipendente.
«Dopo i banchieri arrivano i generali»: così commentò sprezzantemente Massimo D’Alema quando Ciampi arrivò a Palazzo Chigi nel bel mezzo della crisi della Prima Repubblica. Tuttavia, i Democratici di Sinistra votarono la fiducia all’ex numero uno di Palazzo Koch. Con le sue parole D’Alema sintetizzò bene però lo stato d’incertezza assoluta che c’era nell’Italia nel 1993. Ciampi si trovò a gestire una situazione drammatica: dalle ripercussioni dell’inchiesta Mani Pulite in piena deflagrazione ai partiti in (auto)distruzione, dalla Mafia che occupava le colonne dei giornali dopo sanguinosi attentati nelle grandi città italiane alla bufera dell’uscita dall’Italia dallo SME. Ciampi si trovò ad amministrare uno Stato in ginocchio, e un semplice blackout che si verificò a Palazzo Chigi nell’estate 1993 diede materialmente anche l’impressione di assistere ad un colpo di Stato in stile sudamericano. Ciampi tenne duro.
Come ricorda Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 9 giugno 2020), egli «aveva un tratto affabile, gentile, uno sguardo limpido, di rara mitezza, ma fermo, che denotava una persona d’acciaio. Necessaria in un Paese che fa tanta fatica a portare fino in fondo le riforme, che approva decine di leggi, ma poi si scorda di scriverne i decreti attuativi, lasciandole quindi lettera morta. Per Ciampi era impensabile che le scadenze venissero anche solo rimandate, gli impegni presi non rispettati.» In questo -si direbbe con una battuta- non era culturalmente italiano: il rigore dei conti pubblici e degli impegni internazionali erano per lui imperativi. Coerentemente con il suo impegno costituzionale, Ciampi tenne a battesimo quattro governi: il primo fu quello del già citato D’Alema, poi il secondo di Giuliano Amato ed infine due governi di Silvio Berlusconi. I senatori a vita che ha nominato includono Rita Levi-Montalcini, Mario Luzi e Sergio Pininfarina.
Ciampi fu il Presidente che “sdoganò” il Tricolore. Percepito come simbolo di destra, simbolo partigiano -anche se Ciampi era tutt’altro che di destra- esso rimase nel purgatorio in compagnia del concetto di “nazione” per lunghi decenni. A rispolverarlo -complice anche il fatto che si era usciti dalla Guerra Fredda- fu proprio il Presidente livornese. Sempre a proposito del Tricolore, se questo oggi è considerato un simbolo che teoricamente dovrebbe unire gli italiani lo si deve proprio a Carlo Azeglio Ciampi. Il quale, come ha scritto Aldo Cazzullo (CdS, 23 aprile 2020) «divenne Capo dello Stato senza mai avere tessere di partito, se non – per un anno – quella del Partito d’Azione, destinato a scomparire quasi subito. Salito al Quirinale, si ripropose di risvegliare l’orgoglio nazionale e il senso di appartenenza. Non di crearlo; era convinto che esistesse già, nel profondo delle coscienze; e che occorresse solo riportarlo alla luce.»
Ciampi amava il Belpaese, amava il verde, il bianco, il rosso: vivissimi i suoi appelli alla Costituzione repubblicana e alla forza delle istituzioni. Si noti che non era un nazionalista: bensì un patriota che amava la propria nazione, le dava lustro, l’ha servita fino alla fine nell’entusiasmo simile a quello dei padri costituenti della Repubblica e della prima Comunità Europea. Conosceva il ruolo dell’Italia nel Vecchio Continente e ne vedeva forze e limiti; sapeva della cura da cavallo che l’Italia avrebbe meritato e delle incurie, da parte degli italiani e della classe politica, dell’alto debito pubblico, nonché di strategiche e sistemiche corruttele. Amando il suo paese, non si è mai lasciato prendere da quel nazionalismo cialtronesco, puerile, e incompetente del giorno d’oggi. Ciampi amava il Tricolore, amava la sua patria: l’Inno di Mameli era il canto degli italiani e non intendeva cambiarlo nelgli anni in cui la Lega Nord predicava la secessione dal Po in giù e se la prendeva con i “terroni” (anni dopo il leader del medesimo partito sarebbe diventato Senatore in Calabria, nonché a parole strenuo difensore del Tricolore).
Sempre a favore dell’unità e della coesione nazionale, Ciampi aveva presieduto il comitato organizzativo per le manifestazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia ma, nel 2010, si dimise a causa delle beghe della classe politica del tempo (ridicolmente litigiosa anche durante la festa nazionale). Ciampi ha rappresentato il Belpaese con dignità e senso dello Stato, che non è statalismo. Se la generazione precedente aveva visto Pertini come il “nonno” della Repubblica, anche Ciampi, per quella successiva, ricoprì teneramente tal ruolo. E non solo in Italia. Nella sua idea di Europa c’erano gli italiani, i tedeschi, gli olandesi, i francesi … C’erano gli europei. Di se stesso diceva di essere toscano, italiano, dunque europeo. E se non era scontato quindici anni fa quando risiedeva al Quirinale, figuriamoci oggi.