L’ascesa della Cina è un elemento di grave disturbo per il sistema delle relazioni internazionali post-Guerra Fredda a trazione americana. In un libro di quarant’anni fa, Vivere in Cina, Piero Ostellino dipingeva una Cina ancora rurale, quasi post-imperiale, ancora agricola e lontana dalle logiche della globalizzazione. La svolta avvenne con l’abbandono del Maoismo e l’adozione del riformismo sotto Deng Xiaoping, che portò all’apertura della Cina al mondo del libero scambio. Ostellino racconta di come nella storia del pensiero e della nazione cinese non esista un concetto di libertà in senso occidentale. In Cina, «le libertà individuali sono sempre state sottomesse all’autorità della famiglia o del clan, ieri, lo sono quelle dell’utilità di lavoro del partito, oggi.» È ancora così: in cambio di libertà e privacy, il regime comunista ha garantito decenni di crescita economica in veste di garante del boom cinese; un baratto – quello della libertà per più beni di consumo – che oltre ad andare contro i dettami del Comunismo duro e puro, mostrerà prima o poi la corda.
La società civile cinese, ricorda Ostellino, è assorbita dalla politica. Cosa a cui il pensiero di Mao Zedong contribuì in maniera decisiva. Promotore di una società ugualitaria – molto più di quella sovietica – Mao teorizzava la continua rivoluzione degli assetti sociali, proprio a partire dalla indiscussa autorità del Partito-Stato. Queste influenze sono ancora presenti nella società cinese di oggi. Componenti tradizionalmente cinesi – tra cui le dottrine dell’arte della guerra di Sun Tzu e la verticalità della società confuciana – si fusero con il Comunismo appreso sui testi di Karl Marx e Lenin. Curiosamente, il Comunismo è stata l’unica ideologia esportata dall’Occidente ad aver avuto immense fortune in Cina. «Dal Taoismo, il Marxismo cinese ha ereditato la concezione della Storia come susseguirsi di momenti di integrazione e di disintegrazione», cioè l’idea che a cicli di pace sociale debbano corrispondere intesi stravolgimenti. Un rimescolamento continuo, la cosiddetta rivoluzione permanente, celebrata dal Maoismo, ma accantonata dai successori del Chairman.
Altro concetto sottolineato da Ostellino è quello di responsabilità collettiva cinese, «l’idea che l’uomo non sia mai responsabile individualmente delle proprie azioni, ma che la responsabilità debba essere riferita al nucleo familiare sociale nel quale egli è inserito.» Collettivismo, ma fino ad un certo punto: alla fine, «che piaccia o no, la gente fa la rivoluzione per il Socialismo, ma lavora per sé.» Ed è questo il messaggio della Cina di oggi: arricchirsi è glorioso, per dirla con Deng. Insomma: produrre per sé va bene – altro infrangimento della dottrina comunista. Tuttavia, il concetto di individualismo non sembra essere ancora pienamente tollerato nella società cinese. «L’uomo della strada cinese, per lunga tradizione […] non è un individualista, né […] un anticonformista. […] La sua società ideale […] rimane quella fondata su un ordine sociale […] regolato dal principio dell’armonia.» In relazione agli odierni concetti in voga di “riprendersi dal secolo delle umiliazioni” e al forsennato nazionalismo cinese targato Xi Jinping, è bene ricordare che «in Cina, il pendolo della politica oscilla continuamente fra tradizione e modernità. Le sue oscillazioni esprimono una doppia esigenza.»
Cioè, «l’esigenza di fare della Cina uno Stato moderno e quella parallela di fare assorbire alla società cinese il cambiamento senza traumi». Interessanti le considerazioni di Ostellino nei confronti del sistema giudiziario cinese del tempo. «Dal primo gennaio 1980, sono entrati in vigore i primi codici penali e di procedura penale della storia della Cina comunista. Si è trattato di spiegare, a un miliardo di cinesi che non ne avevano mai sentito parlare, che cosa è la “certezza del diritto”.» L’unica certezza rimane tuttavia l’arbitrarietà del PCC, che impone le sue regole e ne verifica l’implementazione, garantendo ferree conseguenze in caso di defezione – in Cina la gente scompare. E a questo riguardo, già nel febbraio 1979 Ostellino rimase colpito da un articolo su un quotidiano di Pechino intitolato “I diritti umani non sono la parola d’ordine del proletariato”. All’epoca, i diritti umani erano considerati roba borghese; oggi la Cina ha una classe borghese, ma i diritti umani vengono lesi comunque – si vedano gli oramai noti campi di concentramento dello Xinjiang e le sterilizzazioni forzate.
Profetiche, inoltre, le parole circa la leadership dell’uomo solo al comando e la galassia dei burocrati che esercitano un controllo ramificato e capillare nella società cinese. «Il paese sta attraversando una fase di consolidamento di una nuova leadership, ansiosa di dimostrare le proprie capacità, di risolvere i problemi che i suoi predecessori hanno lasciato insoluti.» Sembra scritto oggi. La postura della Cina e della sua leadership è cambiata dagli anni Sessanta, fino all’era di Deng, per poi congelarsi con Jiang Zemin e Hu Jintao. Oggi la Cina di Xi si affaccia al mondo come seconda economia del pianeta con una postura aggressiva, tesa a risolvere i conti in sospeso a livello territoriale ed espandersi verso territori strategici, tramite l’arma del capitalismo di Stato. Un altro grande esperto di Cina, che negli anni Settanta contribuì alla sua apertura al mondo, Henry Kissinger (On China), ha scritto di quanto poco conosciamo la Cina e dunque facciamo fatica a capire meccanismi e intenzioni geopolitiche del Dragone. «La Cina è stata per secoli l’economia più produttiva del mondo e l’area commerciale più popolosa. Ma poiché era largamente autosufficiente, le altre regioni avevano solo una comprensione periferica della sua vastità e della sua ricchezza.»
Continua l’ex Segretario di Stato sotto Gerald Ford: «Alla fine del 1820 ha prodotto oltre il 30 per cento del PIL mondiale – un importo che supera il PIL dell’Europa occidentale, dell’Europa orientale e degli Stati Uniti messi insieme.» Nel 1990 la Cina contribuiva con il due per cento del PIL mondiale; oggi circa il quindici. L’infrastruttura trasversale della Belt and Road Initiative il piano Made in China 2025 sul manifatturiero, l’accelerazione nell’inglobamento di Hong Kong con trent’anni di anticipo, le mire geopolitiche nei confronti di Taiwan e il domino del Mare Cinese Meridionale, nonché del commercio regionale e delle risorse terrestri in Africa, trovano forza ed origine nella crescita iniziata negli anni Ottanta. Per la Cina di oggi, il concetto di riscatto e orgoglio nazionale è essenziale. Chiunque si opponga agli obiettivi geopolitici di Pechino, come ricordato da Xi Jinping in occasione dei cento anni del PCC il primo luglio 2021, dovrà vedersela con la muraglia di acciaio costruita – a partire dagli anni Settanta – da un miliardo e mezzo di cinesi.