Nelle ultime settimane ha fatto molto discutere la decisione, presa dal nuovo governo Meloni, di modificare la denominazione del ministero dell’istruzione, adesso chiamato “Ministero dell’istruzione e del merito”. L’opinione pubblica si è divisa rispetto all’opportunità di questa rinominazione, con argomenti a favore e contrari che sono per certi aspetti molto simili tra loro. Sembra in generale difficile riuscire a trovare un accordo sul peso che la meritocrazia dovrebbe avere nella nostra società: la meritocrazia è un valore? e quanta ce ne serve?
I sostenitori del cambio di nome del ministero, a cominciare da coloro che ne sono responsabili, ritengono che un sistema scolastico in cui il merito viene considerato un valore da premiare sia in generale più equo. Le riforme scolastiche della storia recente, dicono, hanno sacrificato in nome dell’inclusività il diritto ad avere degli studi più impegnativi, modellati sulle capacità degli studenti. Gli interessi degli studenti più meritevoli, quindi, non sarebbero tenuti sufficientemente in considerazione. Nel testo firmato da Giorgia Meloni, “Appunti per un programma conservatore”, si fa riferimento ad un libro scritto da Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza) in cui gli autori affermano che il risultato dell’abbassamento del livello scolastico penalizza soprattutto gli studenti di estrazione sociale più bassa, sottolineando come la qualità degli studi sia un mezzo essenziale per l’incentivazione della mobilità sociale.
Dall’altra parte, chi si è mostrato preoccupato per questa mossa del governo, lo ha fatto ricordando come il merito sia fortemente condizionato da fattori sociali, e che plausibilmente verrebbero premiati soprattutto coloro che già partono da una condizione di vantaggio, con il rischio che gli altri vengano invece lasciati indietro. Questo non farebbe che acuire delle disuguaglianze già esistenti e profonde. Sembrerebbe dunque che sia incentivare che scoraggiare l’attenzione alla meritocrazia nel sistema scolastico risulterebbe in un danno per le classi più basse; una conclusione abbastanza paradossale. Non a caso la discussione si è presto spostata sull’analisi più in generale dei concetti di merito e meritocrazia e ha visto contrapporsi da un lato coloro che ne rivendicano la centralità, dall’altro coloro che ritengono siano concetti superati e pericolosi.
A prima vista la meritocrazia sembra certamente essere un valore; se si parla, ad esempio, di una posizione lavorativa, le nostre intuizioni suggeriscono che sia giusto che ad occuparla sia la persona più meritevole, e cioè quella persona più capace, competente,che è riuscita a distinguersi. Questo vale a maggior ragione se l’alternativa è che venga scelta una persona in base a preferenze personali, simpatie, parentele. In questo senso è sicuramente vero che abbiamo bisogno di (più) meritocrazia.
Se considerati in maniera più approfondita, però, i concetti di merito e meritocrazia risultano più problematici del previsto. Non è chiaro infatti in che misura possiamo dire di meritarci davvero qualcosa.Talenti, capacità, qualità, ovvero i fattori che stabiliscono il merito, sono qualcosa di cui siamo solo in piccola parte responsabili; essi dipendono fortemente, come già si accennava, da circostanze sociali e familiari (educazione, presenza genitoriale ecc…) oppure da qualità genetiche (per cui c’è chi nascerà più intelligente, più forte, più in salute…), tutte cose che ci sono toccate in sorte. Viste le cose in questo modo, sembrerebbe che in un certo senso non ci meritiamo il nostro merito.
Occorre allora domandarsi se sia giusto premiare il merito e fare riferimento al principio meritocratico nello stabilire il modo più equo di distribuire costi e benefici tra gli individui di una società. Gran parte della tradizione liberale e liberista risponderebbe di sì, e che è proprio il rispetto della meritocrazia a rendere legittime le disuguaglianze socio-economiche: è giusto che chi riesce, grazie alla sue capacità, a produrre e guadagnare più degli altri, possa godere del frutto del suo lavoro. A questa visione si oppone storicamente quella socialista, che in virtù dell’esaltazione di principi solidaristici e del ridimensionamento del ruolo che ha il singolo nel determinare il proprio successo, rifiuta le diseguaglianze, nega il diritto degli individui a (tutto) ciò che producono, e sostiene la necessità di adottare un principio distributivo che si preoccupi non più di rispettare il merito, ma piuttosto i bisogni degli individui.
Chiaramente queste due prospettive non esauriscono le possibilità, senza considerare peraltro come al loro interno contengano infinite sfumature. Una strada mediana potrebbe essere, ad esempio, la soluzione che propone il filosofo statunitense John Rawls in A Theory of Justice, l’opera del 1971 che, unitariamente alla risposta di Robert Nozick (Anarchia, Stato, Utopia) scosse il panorama giusfilosofico, fornendo il retroterra teorico per le visioni del mondo che l’avrebbero seguita nei decenni successivi. L’obiettivo di Rawls è quello di individuare i giusti principi su cui dovrebbe essere fondata la cooperazione sociale e la ripartizione dei beni prodotti da essa. Per farlo si richiama alla tradizione contrattualista, e cioè identifica il giusto ordinamento sociale con quello che sceglierebbero degli individui nel momento in cui decidessero di uscire da uno “stato di natura” per costituirsi in una società e darsi delle leggi, per mezzo per l’appunto di un patto (o contratto).
Il filosofo dà una descrizione abbastanza specifica delle caratteristiche che dovrebbe avere la posizione originaria (lo stato di natura) perché possa effettivamente dare luogo a decisioni eque. Tra queste la più importante è sicuramente quella del “velo di ignoranza”: gli individui dovrebbero essere all’oscuro dei propri talenti, disposizioni, desideri, progetti di vita; in questo modo, non conoscendo i propri interessi particolari, sceglierebbero di tutelare gli interessi di tutti.
Ma quali sarebbero, dunque, i principi che sarebbe razionale scegliere in una siffatta condizione? Secondo Rawls, ve ne sarebbero due fondamentali. Il primo, tipicamente liberale, riguarderebbe il “diritto al più ampio sistema totale di libertà fondamentali, compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti”.Il secondo, più cogente in questa sede, ha a che fare con le disuguaglianze sociali, e afferma che queste sono legittime soltanto nel caso in cui siano a) “per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio del giusto risparmio” e b) “collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità”. Il punto a) del secondo principio è chiamato “principio di differenza”. Esso impone di massimizzare il beneficio degli ultimi e di preferire quindi quella società in cui, a parità di condizioni, “è migliore la condizione di chi sta peggio”. Tale principio verrebbe scelto dagli individui soggetti al velo di ignoranza per tutelarsi dalla cattiva sorte, consapevoli del fatto che questa potrebbe toccare a chiunque di loro.
Nonostante la prospettiva rawlsiana sia, come tutte, estremamente problematica e adotti una logica dubbia per molti filosofi politici e teorici del diritto, ha avuto un forte riscontro politico e giuridico nei decenni successivi. In qualche modo, è plausibile sostenere che la meritocrazia sia un modo di implementare il principio di differenza, nella misura in cui costituisce un incentivo alla produttività. Se la produttività aumenta al punto tale che l’utile totale, pur distribuito in maniera disuguale, è tanto da permettere anche a chi gode della parte più piccola di avere di più di quanto avrebbe, ad esempio, in una condizione di uguale ripartizione, allora quella società meritocratica è da preferire. Si noti come Rawls, facendo sue le critiche di matrice socialista, rifiuti il principio di meritocrazia come un principio intrinsecamente giusto, fondato sul diritto a beneficiare di ciò che si è prodotto con il proprio lavoro. La meritocrazia non è fine della società giusta, ma soltanto mezzo.Per le stesse ragioni, poi, vengono legittimati gli interventi di redistribuzione delle ricchezze, che sono complementari nella messa in pratica del principio di differenza.
La proposta di Rawls, in definitiva, sembra riuscire a tenere insieme istanze diverse: legittima e mantiene uno spirito meritocratico che appare nonostante tutto funzionale alla società e difficile da abbandonare, ma lo fa senza idealizzazioni e senza trascurare i problemi e limiti che strutturalmente lo caratterizzano. Un approccio di questo tipo, insieme pragmatico e cauto, sarebbe forse quello migliore da adottare ogni qualvolta si discute di meritocrazia.
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1 comment
Ovviamente la risposta al merito è “sì”!
Interessante anche questo approccio, cmq.