Ora che gli uligani dello sciovinismo britannico hanno dismesso l’improbabile maschera libertaria per mostrare il loro vero volto socialnazionalista, dove sono spariti i professorini da tastiera che celebravano il referendum di Giugno come il principio di una riscossa democratica? In quanti sono rimasti a decantare le “magnifiche sorti e progressive” della Gran Bretagna post-comunitaria, mentre l’un tempo gloriosa Sterlina scivola verso i minimi pluridecennali contro al Dollaro e contro al pur malconcio Euro?
Stendendo un velo pietoso sul continuo rinvio dell’attivazione dell’Articolo 50 a date sempre più remote – una farsa che persino a Ceppaloni avrebbero vergogna ad inscenare – passiamo ad esaminare l’agenda del governo May. In primo luogo, già nel discorso d’insediamento, il nuovo Presidente del Consiglio ha rivendicato alla politica un fantomatico ruolo direttivo e correttivo nei confronti della “disfunzionalità” dei mercati, suscitando il disappunto della confindustria britannica, intimorita da un possibile aggravio della burocrazia e dell’interventismo statale rispetto all’era Cameron-Osborne; in secondo luogo May ha insistito sulla necessità di “deglobalizzare” l’economia del Regno Unito, al fine di proteggere le classi lavoratrici dalla concorrenza straniera con misure, come le liste di proscrizione per le imprese che assumono dipendenti allogeni, che le sono valse addirittura accuse di plagio da parte dei laburisti più duri e puri. Un inizio a dir poco straniante per l’esecutivo che avrebbe dovuto liberare Londra dalle pastoie del dirigismo brussellese per fare del Regno Unito una specie di paradiso fiscale galleggiante dell’economia mondiale.
D’altra parte, sintantoché nel corso dei negoziati le istituzioni europee insisteranno giustamente nel subordinare il diritto di accesso al mercato unico al riconscimento, da parte inglese, delle quattro libertà per i cittadini comunitari – inclusa la libertà di circolazione delle persone – il governo britannico si troverà preso in trappola da se medesimo. Infatti rimangiarsi il principale argomento della campagna referendaria, ovvero lo spettro dell’immigrazione, e arrivare addirittura a pagare in denaro contante il “diritto” di obbedire da parte terza alle direttive di Bruxelles, pur di tenere mezzo piede nell’UE, sarebbe un’imperdonabile sconfessione di decenni di propaganda euroscettica; ma di contro abbandonare il mercato comunitario, pur di assecondare i riflessi autarchisti dell’elettorato, significherebbe privare il Paese della sua principale risorsa, ovvero la sua capacità di scambiare col continente servizi contro capitali, compromettendo irrimediabilmente la prosperità nazionale. Insomma, dopo aver scioccamente rinunciato alla condizione di membro privilegiato dell’Unione, la Gran Bretagna si trova ora a dover scegliere tra il vassallaggio e l’isolamento.
Tuttavia gli scoperti piani di spesa e di deficit dell’esecutivo May, la sua sfacciata retorica pro-fisco e l’isteria maccartista con cui vengono promosse certe campagne neofasciste – come quella contro i consulenti stranieri dei ministeri – dimostrano che l’involuzione statalista della politica britannica non è dettata tanto dall’impasse negoziale in cui il governo di Londra si trova incastrato, quanto piuttosto da una genuina avversione al mercato e alla globalizzazione intimamente connaturata al popolo del Brexit. Per cui, anche i più intellettualmente disonesti, dopo aver udito al congresso dei Tories il linguaggio pentapartitico della “politica industriale” e addirittura progetti di controllo centralizzato dei prezzi, che farebbero impallidire persino Nichi Vendola, dovranno ora riconoscere che gli impulsi che hanno guidato il voto verso il no tendevano in misura preponderante non verso maggiore bensì verso minore libertà economica, non verso minore bensì verso maggiore protezione e interventismo statale. La destinazione ideale dello scisma britannico non è dunque quel porto franco degli investimenti e dei commerci globali, vagheggiato da qualche macchietta della blogosfera italica, ma al contrario un’utopia isolazionista asimmetrica tanto irrealistica quanto le fole di quegli arruffapopoli nostrani che invocano dazi sulle importazioni senza avvedersi che essi comporterebbero automaticamente dazi eguali e contrari sulle nostre esportazioni.
Tutto ciò ci significa, politicamente parlando, una sola cosa: ovvero che, con tutta la misericordia e la compassione che si possono provare per gli ingenui o per i furbastri che contrappongono futuribili chimere libertarie all’Unione Europea “dirigista e socialista”, nella realtà effettuale di oggi i liberali veri si radunano tutti e solamente sotto la bandiera blustellata. Fuori dal recinto dell’europeismo invece abitano soltanto comunisti fossili e colbertisti imbalsamati.
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