Sull’ edizione cartacea de “il Fatto Quotidiano” dello scorso 16 settembre, l’intera pagina 4 è stata dedicata a un tema eticamente sensibile e molto delicato: la lotta contro la povertà. Come combattere la povertà? Interessa ai politici, i quali se lo chiedono sin da quando ai meno abbienti è stato concesso il diritto di voto. Ma interessa anche all’opinione pubblica, alle confessioni religiose, al mondo del non profit e a tutti coloro che cercano di pulire un po’ di coscienza attraverso un disinteressato interesse per i meno fortunati.
Gli articoli in questione contengono critiche da più parti al Governo, giudicato assente sul tema. Naturalmente, padroneggiano a tal riguardo le proposte di introduzione di un reddito di cittadinanza. Si legge perfino di una breve diatriba verbale tra i diversi fautori delle varie proposte, quella più famosa del Movimento 5 Stelle e quella meno famosa del “Reddito di inclusione sociale” (REIS) – ma probabilmente più gradita all’Esecutivo – elaborata dall’Alleanza contro la povertà in Italia (Alleanza che coinvolge la Caritas e molteplici sigle del mondo cattolico, sindacale e sociale). A queste proposte si aggiunge altresì quella di Sel, per l’introduzione di un Reddito Minimo Garantito, abbastanza simile a quella del M5S. La proposta REIS, rispetto a quelle di SEL e M5S, prevede un’erogazione minore (400 euro mensili per un nucleo composto da una persona più il 75% del canone di locazione) e riguarda solo i soggetti rientranti nella fascia di povertà assoluta calcolata dall’ISTAT, risultando più sostenibile da un punto di vista di finanza pubblica.
Le intenzioni delle varie proposte sono meritevoli di pregio, nobilitano la politica quale interesse generale. La povertà – assoluta e relativa – è purtroppo certificata da tutti gli indicatori ed è stata aggravata dalla recessione che ha colpito negli ultimi anni il nostro Paese. Ma le buone intenzioni lasciano il tempo che trovano. Non sarà il buonismo a invertire il trend, bensì i risultati che una policy può produrre rispetto a un’altra. E i risultati spesso arrivano quando gli incentivi economici sono allocati in maniera appropriata, consentendo di raggiungere l’efficienza senza dover affidarsi al senso civico e all’onestà dei cittadini che – come ben sappiamo – rappresentano spesso un’eccezione. Ecco perché un’analisi economica delle leggi in cantiere eviterebbe molte conseguenze sgradevoli a cui siamo ormai abituati.
Prendiamo ad esempio la proposta del M5S, poiché il movimento rappresenta la più grande forza in parlamento che dal 2013 ha fatto del reddito di cittadinanza il suo cavallo di battaglia. Il Disegno di legge n. 1148 prevede un sostegno economico per le persone che non riescono a raggiungere la soglia di risk of poverty, fissata per l’anno 2014 (da aggiornare annualmente) in € 9.360 netti annui (6/10 del reddito mediano equivalente a € 15.514 per come calcolato da Eurostat). Ai sensi del Ddl, una persona singola senza alcun reddito riceverebbe 780 euro al mese, € 1.014 per un genitore con un figlio minore, € 1.638 per una coppia con due figli minori (tutti gli importi sono indicati nell’Allegato 1 del Ddl). Ovviamente, il sostegno economico può essere anche solo integrativo, aggiungendosi al reddito già percepito dal soggetto beneficiario fino al raggiungimento della suddetta soglia.
Si tratta di importi molto importanti. Il livello dei salari nel nostro Paese è di pubblico dominio, osservabile nelle nostre vite quotidiane. Non servono tante statistiche a suffragarlo. Situazioni ai limiti della drammaticità. Giovani laureati che guadagnano meno di mille euro al mese, stage gratuiti o semi-gratuiti, orari di lavoro interminabili, forze dell’ordine che rischiano la vita per 1.300 euro mensili, ricercatori universitari a cui lo Stato annualmente eroga € 13.638,47 (e poi ci sorprende ancora la fuga dei cervelli, quando invece dovrebbe sorprenderci il folle eroismo di chi resta). Siamo proprio sicuri che sia una misura di giustizia sociale erogare i benefici del reddito di cittadinanza per il solo merito di essere italiani? Sicuramente la dignità umana non deve entrare in becere lotte tra poveri. Ma il problema – tra i molteplici – è soprattutto legato agli incentivi che la misura fornisce. La riduzione del numero di poveri nel mondo non è stato certo opera di sussidi pubblici.
Si legge all’Articolo 8 del Ddl che “Il reddito di cittadinanza è erogato per il periodo durante il quale il beneficiario si trova in una delle condizioni previste all’articolo 4(…)”. Ergo, il beneficio non ha limiti di durata. Questo rappresenta un grave limite ed un perverso incentivo a procrastinare lo status di incapiente.
Il beneficiario ha però degli obblighi, in quanto “(…)deve fornire immediata disponibilità al lavoro presso i centri per l’impiego territorialmente competenti”, “(…)deve intraprendere, entro sette giorni, il percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo tramite le strutture preposte alla presa in carico del soggetto (…)” , mentre perde il beneficio qualora “(…)sostiene più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere esito negativo” o “rifiuta, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue ai sensi del comma 2 del presente articolo, ottenute grazie ai colloqui avvenuti tramite il centro per l’impiego o le strutture preposte di cui agli articoli 5 e 10”.
Ma quando una proposta è congrua? Quando “è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario in ambito formale, non formale e informale, certificate, nel corso del colloquio di orientamento”, quando “la retribuzione oraria è maggiore o uguale all’80 per cento di quella riferita alle mansioni di provenienza se la retribuzione mensile di provenienza non supera l’importo di 3.000 euro lordi. (…)” e quando “fatte salve espresse volontà del richiedente, il luogo di lavoro non dista oltre 50 chilometri dalla residenza del soggetto interessato ed è raggiungibile con i mezzi pubblici in un arco di tempo non superiore a ottanta minuti”.[1]
Da ciò si può facilmente evincere che la durata del beneficio può essere molto lunga, considerati i disastrosi risultati prodotti dagli uffici pubblici di collocamento nella storia repubblicana. Le lungaggini burocratiche (che significano anche costi ulteriori della misura), la lentezza dei colloqui e dell’incrocio domanda/offerta, le condizioni affinché l’offerta sia “congrua” potrebbero comportare una durata pluriennale dell’erogazione. Trovare lavori “congrui” entro 50 km dalla residenza in aree con disoccupazione giovanile sopra il 60%? Buona fortuna! Si pensi al fallimento del progetto Garanzia Giovani, solo per citare un esempio recente.
L’uomo è essere razionale, tende a massimizzare i suoi interessi e i suoi profitti. È inutile biasimarlo o aspettarsi comportamenti virtuosi. In una situazione di incertezza economica e alta disoccupazione – soprattutto giovanile – come quella che stiamo vivendo, il rifugio sotto l’ala protettiva di Mamma Stato è una seduzione troppo accattivante per non cedervi. “Intanto prendo il beneficio, poi quando finisce mi cerco seriamente un lavoro”. Oppure la ricerca lavorativa continua anche in costanza di beneficio, indirizzandosi però verso forme di lavoro irregolari, “in nero”, scaturendo l’effetto contrario rispetto alle intenzioni legislative (il Ddl infatti, Art. 1 comma 3, indica la misura come forma di contrasto proprio al lavoro in nero).
Si chiama “trappola della povertà”, ha una letteratura sconfinata (se ne parla a più riprese nella proposta REIS), ma in poche parole è una situazione che si verifica quando persone poco abbienti non hanno alcun incentivo per cercare un lavoro, poiché perderebbero benefici sociali o fiscali superiori al reddito addizionale guadagnato. Come ha ben sottolineato recentemente il Professor Riccardo Puglisi dell’Università di Pavia “In un qualsiasi sistema di sussidi bisogna valutare quanto il sussidio diminuisce al crescere del reddito, in questo caso se a un guadagno di 100 euro in più corrisponde una riduzione del sussidio di 100 euro vuol dire che l’aliquota marginale è del 100 per cento, l’effetto dell’incentivo è il peggiore possibile”.
Le intenzioni buoniste possono generare consenso, ma creano squilibri di lungo termine difficili da estirpare. I quasi 10 miliardi annui di spesa pubblica per i leggendari 80 euro quali risultati hanno prodotto? E i diversi miliardi per una misura come il reddito di cittadinanza (fare una stima è veramente difficile dati gli incentivi, ma il costo potrebbe essere ben più alto dei 15 miliardi preventivati) non potrebbero essere utilizzati diversamente? A prescindere dalla difficile ricerca delle coperture, occorre decidere se si vuole favorire una crescita di benessere economico di chi ha difficoltà finanziarie o se si vuole distribuire contentini di sopravvivenza a lungo termine per mantenere il consenso. La prima strada impone un uso di risorse diretto ad una continua riduzione del costo del lavoro, ad aumentare sensibilmente le risorse destinate ad erogare borse di studio per i meno abbienti, consentendo loro di studiare nelle migliori università o all’estero, a costruire un nuovo welfare che incentivi la ricerca attiva del lavoro. Occorrerebbe dare maggiori opportunità per uscire dallo stato di povertà, non per restarci intrappolati vita natural durante.
Ma la seconda strada, si sa, è più comoda e produce molti applausi e tanti Likes.
Milton Friedman, oltre ad elaborare una proposta universale contro la povertà che fissa gli incentivi verso la ricerca del lavoro e non contro (the negative income tax, che chi ha cuore il tema dovrebbe prendere in considerazione), era solito dire che “Se tu paghi la gente che non lavora e la tassi quando lavora, non esser sorpreso se produci disoccupazione”.
Ecco, appunto.