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L’invasione di Gaza sarebbe un gravissimo errore

Gaza https://pixabay.com/photos/gaza-strip-palestine-3829414/

***In occasione della mobilitazione di truppe israeliane verso Gaza abbiamo scelto di pubblicare su Immoderati due articoli, scritti da due autori diversi, uno a favore ed uno contro l’invasione di terra della Striscia***

Da giorni centinaia di migliaia di militari israeliani, riservisti e professionisti, attendono ammassati ai confini di Gaza l’ora dell’invasione. L’invasione di terra, s’intende; perché l’assedio è già in corso da tempo. Israele per ora tergiversa, probabilmente su pressioni americane, e non dà l’ordine d’invadere. Intanto, gli Stati Uniti d’America hanno mobilitato un cospicuo contingente militare per l’occasione, preparandosi a gestire una potenziale guerra regionale.
Molti sembrano essere convinti che l’invasione di terra sia l’unica opportunità (e anche l’ultima) per debellare Hamas, altri nicchiano e sembrano propendere per una strategia differente. A parere di chi scrive, l’Occidente e Israele compirebbero un errore madornale con l’invasione di terra della Striscia di Gaza, compromettendo definitivamente di stabilità nel Medio Oriente.

Le precedenti invasioni
Lo scorso mercoledì, sulle pagine del Corriere, è stato un acuto osservatore come Lorenzo Cremonesi a sottolineare le difficoltà abnormi che si celano dietro un’invasione di terra. Gli esempi storici utilizzati sono l’invasione di Falluja e l’invasione di Mosul.
Nell’aprile del 2004, un anno dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, fu lanciata la Prima battaglia di Falluja. Durò quasi un mese e fu un massacro: gli americani morti furono una trentina, i guerriglieri di Hussein circa 230 e i civili locali 600. Un paio di mesi dopo, alcune cellule di Al Qaeda lanciarono degli attacchi sull’autostrada per Amman, contro le basi americane e la polizia irachena. L’instabilità generata diede vita alla Seconda battaglia di Falluja. Durò cinquanta giorni e fu una carneficina peggiore della precedente: 100 americani, 2.000 jihadisti e quasi 800 civili morirono. Nonostante la crudezza dei combattimenti e la netta supremazia militare americana, la conoscenza da parte dei guerriglieri autoctoni del territorio e la forte radicalizzazione condussero ad un’instabilità che durò sino al 2016.
Differentemente, per certi versi, andò la battaglia di Mosul del 2016. La città irachena fu assediata per 9 mesi, il centro storico fu distrutto e le vittime furono a migliaia tra soldati, terroristi e civili. Anche qui la guerriglia di bande terroriste autoctone permise di prolungare i combattimenti e di superare, sebbene per periodi di tempo limitati, il gap tra le forze militari e quelle terroriste. L’esito fu differente: l’Isis fu ridotta al lumicino e poco dopo perse anche Raqqa, fino a disperdersi. Ma il dato rilevante fu rappresentato dalle enormi difficoltà affrontate nel combattimento e dal numero cospicuo di vittime.
Hamas ha radicato il suo potere militare in maniera non dissimile e affrontare una guerriglia urbana, tra reticolati di tunnel, popolazione radicalizzata e riserve di munizioni nascoste in ogni dove, rende i risultati dell’invasione molto incerti. Oltre alla pericolosità di Hamas e delle milizie della Jihad, un elemento non secondario è l’elevatissima densità abitativa nella Striscia: un’invasione di terra mieterebbe un numero di vittime mai visto prima, di gran lunga superiore alle battaglie analoghe condotte in precedenza.

L’allargamento del conflitto
Giovedì 19 ottobre, la politologa Dalia Dassa Kaye ha sottolineato sulle pagine del Foreign Affairs i possibili scenari di un allargamento del conflitto in Medio Oriente. Un’invasione della Striscia potrebbe comportare una rapida espansione del conflitto, con effetti di portata più che rilevante per tutta la regione. Gli elementi che vengono evidenziati sono: la necessità per tutti gli attori geopolitici della regione di una de-escalation e gli effetti di un’estensione del conflitto a Hezbollah e Teheran.
Le ragioni per cui si può ancora parlare di de-escalation riguardano tutti i paesi: Israele ha concentrato la sua attenzione su Hamas e aprire altri fronti potrebbe compromettere gli obiettivi iniziali; Hezbollah soffre una elevata instabilità politica ed economica in Libano, e una guerra diretta con Israele potrebbe far precipitare le cose; l’Iran non intende entrare in un conflitto diretto con gli Stati Uniti; allo stesso tempo Washington sa che un conflitto con Teheran porterebbe sicuramente ad un aumento dei prezzi del petrolio e a distogliere l’attenzione dalla guerra in Ucraina. Poi sia l’Egitto che la Giordania vivono crisi economiche e sociali rilevanti, e un afflusso di profughi palestinesi in fuga dalla guerra potrebbe rappresentare una vera e propria emergenza.
Poi viene il ruolo di Hezbollah e Teheran. La portata offensiva di Hezbollah non è da sottovalutare, dato che possiede arsenali missilistici ben più avanzati rispetto ad Hamas. Inoltre l’Iran, benché non desideri intraprendere un conflitto diretto con Israele e Washington, ha più volte reso nota la volontà di rispondere ad una possibile invasione della Striscia. Un coinvolgimento di entrambi avrebbe effetti devastanti per tutta la stabilità della regione e trascinerebbe Israele in una guerra senza confini né limiti. La crudezza di un conflitto di questo genere comporterebbe una definitiva dissoluzione degli sforzi diplomatici compiuti dagli Accordi di Abramo in poi.
L’incontro dei capi di Hamas ed Hezbollah di martedì pomeriggio, come sottolinea acutamente Francesco Battistini sulle pagine del Corriere di giovedì, è la dimostrazione della formazione di un asse del fondamentalismo che ha come collante il sostegno iraniano. L’invasione di terra rischierebbe di provocare un repentino allargamento del conflitto a tutta la regione, generando un’instabilità difficilmente gestibile per l’Occidente.

Il ruolo degli ostaggi
Sabato 14 ottobre, Raphaëlle Bacqué e Béatrice Gurrey sulle pagine Le Monde hanno sottolineato la rilevanza che la salvezza degli ostaggi ha per l’opinione pubblica israeliana. Anche qui gli esempi storici risultano fondamentali: da decenni gli ostaggi e il loro scambio sono al centro della questione israelo-palestinese.
Dalle Olimpiadi di Monaco del 1972, in occasione delle quali nove israeliani furono presi in ostaggio dal commando Settembre nero, passando per i fatti di Maalot del 1974, in cui furono fatti ostaggio 105 studenti da tre uomini del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sino ad arrivare al rapimento di Gilad Shalit, il diciannovenne militare di leva preso in ostaggio da Hamas, lo scambio di prigionieri è una costante del conflitto.
L’opinione pubblica israeliana ha sempre dimostrato una particolare sensibilità per la salvezza degli ostaggi. E questo è dovuto, secondo le due giornaliste, al patto silenzioso che s’instaurò sin dal principio tra il popolo israeliano e il suo esercito. Il fulcro di questo patto è la garanzia del ritorno a casa: la possibilità, negli scorsi secoli negata agli ebrei, di sentirsi sicuri in un territorio che potessero identificare come la propria patria. Quando questo accordo viene meno, le ricadute in termini politici sono devastanti (si vada il ritiro di Golda Meir dopo i fatti di Maalot).
Ad oggi si stima che nelle mani di Hamas ci siano oltre 220 ostaggi, mai nella storia del conflitto si era visto un numero così alto. Un’invasione di terra metterebbe seriamente a rischio la vita degli ostaggi. La loro sicurezza, però, non può rappresenta per Netanyahu un fattore solo politico. È anche un dato che ha un risvolto umanitario e morale: sono 220 persone che pagherebbero con la vita la scelta di Israele d’intraprendere un’azione muscolare e dai dubbi risultati militari.

La catastrofe umanitaria
Fin dall’inizio del conflitto i dati che giungono dal fronte sono allarmanti. Le perdite civili raggiungono un numero catastrofico: oltre ai 1.400 israeliani uccisi nell’attacco di Hamas, ci sono gli oltre 7.300 palestinesi caduti sotto le bombe di Israele. Uno scenario di questo genere ha sollevato molte perplessità sui metodi adottati per rispondere al massacro del 7 ottobre. Al di fuori dello scenario di polemica manicheo che è andato disegnandosi in questi giorni, che sembra rappresentare una competizione schumpeteriana tra tifoserie occidentali, è bene considerare con particolare attenzione gli appelli che provengono dall’Onu, dall’Oms e delle Ong che operano in quei territori.
Tutti, nessuno escluso, affermano il bisogno immediato di porre rimedio ad una condizione sanitaria disastrosa: il rischio di epidemie imperversa per via della impossibilità di assicurare una sepoltura ai cadaveri; l’acqua potabile scarseggia e il rischio di disidratazione è elevatissimo; le cure, i medicinali, l’energia elettrica e i rifornimenti d’ogni genere sono preclusi alla popolazione palestinese dall’inizio dell’assedio israeliano; gli ospedali, quando non bombardati, hanno difficoltà a continuare a prestare il servizio di soccorso e rischiano di diventare degli obitori. A ciò si aggiunge la già citata densità abitativa, tra le più alte al mondo, che complica la convivenza e la possibilità di ripararsi dai bombardamenti.
In uno scenario di tal fatta è materialmente impossibile evitare un massacro di civili durante l’invasione di terra. La scelta dell’invasione porrebbe masse di civili inermi davanti ad una strage certa: questo, al di là dei numeri dei morti e delle colpe originarie, non può essere considerato umanamente accettabile.

L’unica strategia possibile
Sulla base di queste ragioni, non può che rendersi evidente la necessità di una strategia più complessa e rispettosa dei diritti umani per contrastare l’azione di Hamas. Una strategia di lungo periodo che abbia anche il fine di scongiurare la riemersione di impulsi fondamentalisti e di radicalizzazione dei gazawi. Inoltre, l’invasione di terra pregiudicherebbe definitivamente le opportunità di contenimento del conflitto, non giungendo ad una sua soluzione ma comportando una sua inevitabile complicazione.
Gli attacchi via terra ad Hamas dovrebbero essere condotti unicamente con corpi d’elite, specificamente addestrati e pronti a limitare gli eventuali danni collaterali, preservando la vita dei civili. La strategia internazionale di lotta al terrorismo di Hamas non può prescindere da una stabilizzazione (e normalizzazione) delle relazioni tra Israele e il mondo arabo, nello specifico con Turchia, Egitto, Qatar e Arabia Saudita; oltre che da un intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E qui c’è un altro punto fondamentale. Il Consiglio di sicurezza, paralizzato com’è dal potere di veto di Russia e Cina, presuppone un accordo unanime tra le principali potenze mondiali. Questo vuol dire che la soluzione al conflitto israelo-palestinese non si trova tra Washington e Tel Aviv, ma coinvolge tutti gli attori geopolitici del nostro tempo.

Il prerequisito per fare ciò è interrompere l’assedio di Gaza e garantire dei corridoi umanitari per i civili. Quanto alla strategia da intraprendere, gli obiettivi fondamentali dell’azione israeliana dovrebbero essere:

  • strutturare una strategia offensiva di lungo periodo che isoli Hamas sul piano geopolitico, dal momento che è interesse anche di Cina e Iran che il conflitto non si allarghi;
  • ricondurre in un perimetro di legalità la condizione dei palestinesi, favorendo l’invio di risorse umanitarie e per lo sviluppo, imponendo elezioni democratiche a Gaza e in Cisgiordania, e ponendo fine all’occupazione dei coloni israeliani;
  • garantire l’attuazione della soluzione di convivenza prospettata negli anni precedenti (due popoli, due Stati), anche attraverso un presidio delle Nazioni Unite a garanzia dell’integrità di entrambi gli Stati

Un allargamento del conflitto sarebbe una catastrofe per Israele e per le migliaia di innocenti che nulla hanno in comune con Hamas, con la Jihad e con il regime teocratico iraniano. L’invasione di terra rappresenta la risposta muscolare che un governo alla fine dei suoi giorni – quello di Netanyahu – cerca di dare a un problema complesso e atavico: mai potrà essere la soluzione al conflitto israelo-palestinese, né alla tirannia terroristica di Hamas.
Da ultimo, come acutamente ha sottolineato Yuval Noah Harari a Sky Tg24, il governo di Netanyahu ha individuato l’obiettivo da colpire, ma non ha ancora detto cosa verrà dopo. E proprio questa è la domanda che campeggia ai confini con Gaza, frapponendosi tra la schiera di soldati israeliani e quella fascia ultrapopolata di terra: ammesso che si riesca a spazzare via Hamas e la Jihad (e nessuno può assicurarlo), cosa intende fare Israele al termine dell’invasione di terra?

***È necessario invadere Gaza? Puoi leggere il parere di un autore favorevole qui***

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