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Serotonina, scienza e metodo

Serotonina

La recentissima pubblicazione su Molecular Psychiatry, rivista medica specialistica edita da Nature, della psichiatra Joanna Moncrieff, University College London, ha incredibilmente smontato il ruolo popolarmente attribuito alla scarsità di serotonina nelle sindromi depressive e posto nuovamente l’accento su un’idea di scienza che non è Verità ma metodo. Ricerca, aggiornamento e sviluppo sono le credenziali di base che inevitabilmente implicano sperimentazione e correzione. Gli “errori” non sono qualcosa da eliminare ma parte integrante dell’evidenza su cui si fonda il metodo scientifico.

Quasi tutti sappiamo che la serotonina è la molecola della felicità, c’è chi se l’è tatuata sul braccio e chi quotidianamente assume i suoi precursori -come il triptofano- tramite integratori. C’è poi chi regolarmente assume SSRI, farmaci su prescrizione che inibiscono la ricaptazione presinaptica di serotonina, rendendola più disponibile all’interno dello spazio sinaptico, in sostanza aumentando la concentrazione del neurotrasmettitore tra un neurone e l’altro al fine di trattare la depressione.

Scoperta a Pavia da Vittorio Erspamer nel 1935, il suo appellativo è arrivato molti decenni dopo e ha finito per sancire uno dei pilastri portanti nella conoscenza del cervello umano. Fino ad oggi. Ormai da diversi anni si è acceso un dibattito sul ruolo degli SSRI, che seppur supportati da buone evidenze nel curare la depressione e prevenire le ricadute restano gravati da una percentuale non trascurabile di inefficacia, legata soprattutto ad alcune tipologie di sindrome.

Per decenni si è pensato che aumentare i livelli di serotonina potesse contrastare la depressione. La umbrella review della dottoressa Moncrieff, una sorta di super-analisi di decine di revisioni sistematiche e meta-analisi che si avvale di enormi dataset, sembra dimostrare l’esatto opposto: non esiste evidenza convincente che la depressione sia associata o causata da basse concentrazioni di serotonina”.

Non solo, ma “la maggioranza degli studi non ha evidenziato una riduzione dell’attività della serotonina nelle persone con depressione in confronto a persone non depresse” e “una riduzione della disponibilità di serotonina non riduce consistentemente l’umore dei volontari”. Addirittura “studi genetici di alta qualità escludono un’associazione tra i genotipi relati ad alterazioni del sistema serotoninergico e depressione”, insomma una “stroncatura” a tutto tondo.

Eppure gli SSRI funzionano, soprattutto nelle forme acute di alcune tipologie di depressione. Come è possibile? La risposta è presto detta, non lo sappiamo. Per usare le brillanti parole dell’Economist nell’articolo Wrong Turn “How most medicines work their magic is understood. But for some it remains a mystery”. Un concetto terribile quanto inconcepibile per molti: ignoriamo il preciso meccanismo d’azione di molti farmaci, ma sappiamo che funzionano.

Una certa dose di fortuna epistemica caratterizza talvolta anche la medicina, il caso può influire sulla nostra assunzione di conoscenza e metterla in crisi tramite semplici esempi alla Gettier, per citare l’analisi tripartita ed il justified true belief. Nel caso della serotonina, credere che fosse implicata nella depressione era giustificato, poiché era vero che gli SSRI aumentavano in vitro la concentrazione di serotonina ed era vero che gli SSRI riducevano la sintomatologia nella depressione acuta. Pensavamo quindi di essere a conoscenza del loro meccanismo d’azione, ma questa consapevolezza non derivava da un ragionamento logico puro che partisse dalla piena comprensione del corpo umano, ma da un’evidenza sperimentale, empirica, correlazionale che consentiva la spendibilità delle scoperte in materia, in termini di sviluppo umano e tutela della salute, pur senza avvalerci di una conoscenza completa.

Ragionamenti di tipo induttivo come questo non solo non sono da demonizzare, ma anzi sono ciò che ha consentito alla scienza di evolvere così tanto e così velocemente nell’ultimo secolo, con strabilianti risultati in termini di qualità ed aspettativa da vita. Semplicemente occorre tenere conto che la scienza sperimentale necessita inderogabilmente di conferme continue, tramite metodologie che evolvono anche grazie al progresso tecnologico.

Sapere che un farmaco non viene ingegnerizzato come il pezzettino perfetto di un puzzle ritagliato da una piena comprensione del sistema biochimico di riferimento, ma che cerchiamo la funzionalità di una molecola finché non troviamo qualcosa che funzioni meglio fa paura. Ci espone al rischio di wrong turn, eppure resta il miglior modo possibile per progredire nella tutela della salute e ampliare le nostre conoscenze concrete, spendibili.

Ancora una volta a garantire il progresso non è una visione dogmatica di scienza che divide il sapere dall’ignoranza, ma una visione di scienza che è anzitutto discussione perpetua (entro certi canoni), affinamento continuo e incremento illimitato. Una conoscenza che non solo si allarga, ma si rimodella in sé stessa perché non è statica, nessun libro è in grado di contenerla in eterno, ma nel tentativo necessita di essere riformulato, riscritto. Un po’ come la foto del cielo scattata dal telescopio Webb, che ci svela più approfonditamente dettagli sfocati e malinterpretati di visioni più superificali della realtà, talvolta rivelatesi mistificatorie avendo scambiato qualcosa per qualcos’altro.

Questo tipo di scienza necessita per definizione di un grado di incertezza perché non è un programma informatico. Non è inscrivibile in un circuito proposizionale dove a determinate premesse corrispondono determinate conclusioni, ma superando un modello deterministico ne abbraccia uno probabilistico, dove l’imprevedibilità, il dubbio e la controvertibilità del sapere sono parte integrante e fondativa.

Giusto lo scorso anno a David Julius e Ardem Patapoutian fu assegnato il premio Nobel per le scoperte conseguite nello studio dei recettori del tatto! Se avessimo chiesto a un qualsiasi medico nel 2020 (ma anche nel 2010) il funzionamento del senso del tatto, della meccanocezione più in generale, questi sicuramente ci avrebbe fornito un bellissimo disegno di neuroni, corteccia, trasduttori e molto altro. Un’architettura di rete convincente basata su un’analisi centenaria, che solo uno stupido si sarebbe sentito in dovere di ritenere incompleta, manchevole. Eppure un Nobel non viene conferito per nulla ed ecco allora che nell’infinitamente piccolo e parcellizzato, incredibilmente complesso e solo parzialmente compreso della biochimica molecolare qualcosa di incomprensibile ai più è stato giudicato una scoperta sensazionale e portante per la nostra conoscenza.

Abituati a immaginare il sapere come una fotografia ci risulta impressionante l’idea di una conoscenza del corpo umano paragonabile ad un arazzo sempre più minuziosamente e continuamente decorato, dove non di rado è necessario riavvolgere il filo perché i ricami non combaciano. Nondimeno è questa l’unica forma di sapere scientifico esistente, il resto è sapere religoso, scientismo.

Proviamo ora ad immaginare quanto distante sia questa visione di conoscenza dal populismo determinista che volgarmente vorrebbe la farmacologia paragonata alla cartomanzia e la genetica alla chiaroveggenza.

Abituare ad una conoscenza scientifica che si evolve ponendosi costantemente in discussione e rifiutando verità assolute è l’unico modo per fare il salto di qualità nel dibattito pubblico e continuare a poter coniugare medicina e democrazia.

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2 comments

Dario+Greggio 25/07/2022 at 13:35

bello, grazie.

ps: per aver le scoperte conseguite
parcillizzato
esistenete

Reply
Jacopo Soregaroli
Jacopo Soregaroli 25/07/2022 at 13:51

Grazie per la segnalazione Dario, ho corretto

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