Vive la France! Abbiamo finalmente trovato l’uovo di Colombo: per evitare il dilagare di una estrema destra lepenista e putiniana serve una destra liberale. Commentatori e opinion leader sembrano oramai aver trovato la soluzione ai mali della destra italiana, come se elezioni amministrative francesi avessero cancellato in un sol colpo anni se non decenni di storia politica, offrendo i presupposti per una rinascita della destra ispirata dai cugini d’oltralpe. È evidente, si sta estremizzando. Ma non troppo. La mia impressione, parziale e sicuramente venata di scetticismo, è che le amministrative francesi non offrano nessun motivo di compiacimento, almeno per chi ha a cuore le sorti della destra italiana, variamente intesa. Perché guardando il nostro quadro politico gli appigli per un paragone appaiono forzati, anche e soprattutto a destra. Ma andiamo con ordine.
Intanto il contesto internazionale, per come viene descritto e percepito in Italia, non offre grandi appigli: rispetto al 1994 e al 2013 all’orizzonte, oltre i confini nazionali, non sembrano sussistere variabili in grado di creare sconquassi. Non c’è un muro di Berlino da abbattere, non c’è una crisi economica da placare. Viviamo un periodo di stagnazione, di non-decrescita, di quieto (soprav)vivere. Non un quadro esaltante, ma proprio per questo non particolarmente adatto a infiammare gli animi di un Paese moderato e conservatore. Focolai, esterni ed interni, in grado di creare nuove ed importanti polarizzazioni esitono. Tuttavia è tutto da vedere se questi si tramuteranno in elementi scatenanti per nuovi terremoti elettorali.
Guardando al panorama politico italiano, la situazione appare ancor più vischiosa. Il quadro politico è e rimane poco competitivo in termini di regole del gioco e sistema istituzionale, e le riforme renziane non sembrano offrire soluzioni definitive a questa mai risolta situazione. Oltre a questo, manca poi un’offerta politica, almeno potenziale, in grado di ricreare i presupposti del bipolarismo perso nel 2013: in altri termini, gli attori e le proposte in campo non sembrano in grado di offrire una competizione chiara e reale. Anche perché la situazione, in termini di rapporti di forza, rimane tremendamente sbilanciata. A sinistra, al di là di tutto, un’offerta competitiva esiste. A destra, com’è facile intuire, no. E la sua costruzione, o se vogliamo “ricostruzione”, appare molto lontana e piena di incognite.
La fine, o quasi, della leadership berlusconiana ha portato allo scollamento dell’area delle destre e alla scomparsa dell’unico perno politico di questa area. Allo stesso tempo la leadership di Berlusconi ha annichilito il consolidamento della destra, sia in termini organizzativi che in termini culturali. Con buona pace di Fitto e soci, Forza Italia è un partito monarchico-anarchico che sparirà con il suo leader. E con questa qualsiasi forma di organizzazione partitica non-salviniana. In termini culturali l’eterogeneità delle destre italiane continua ad essere elevata e difficilmente sintetizzabile. Sugli autoproclamati eredi e/o innovatori di questa area stendiamo un velo pietoso.
Se poi si guarda all’elettorato di riferimento della destra berlusconiana il termine più adatto a descrivere la situazione appare la parola “diaspora”: un elettorato deluso, disilluso, incattivito, che ha trovato in altri soggetti politici o nel non-voto la propria collocazione. Come già scritto, il principale collante delle destre, cioè Silvio Berlusconi, non appare più in grado di coagulare intorno a sé una nuova maggioranza anche in termini elettorali. Oltre a questo, gli elementi che sembravano offrire alla destra una base di consensi facilmente identificabile (ad esempio, la frattura che attraversava il ceto medio, in cui lavoratori autonomi e privati apparivano più propensi a votare a destra) sono stati spazzati via, vuoi dalla crisi, vuoi dalle incapacità delle destre.
Insomma, in un contesto non semplice ma non così sfavorevole, la destra in Italia ha buttato al vento, per usare un eufemismo, vent’anni di transizione (meglio conosciuta come Seconda Repubblica) e non si può non fare i conti con questo dato di fatto. Per cui, se e quando qualcuno – dotato di un’adeguata forza politica, organizzativa, economica e culturale – si farà carico di un progetto di costruzione di questo fronte, questo qualcuno dovrà affrontare, a grandi linee, un’area: eterogenea in termini di attori ed elettorato; disorganizzata a livello partitico; culturalmente debole, se non debolissima. Come si possa paragonare anche lontanamente tutto questo con una destra storicamente, culturalmente e politicamente radicata, inscritta all’interno di uno spazio politico competitivo e di un sistema istituzionale rodato e affidabile come quello francese, Dio solo lo sa.
L’amara verità è che l’area di quella che fu la destra berlusconiana, purtroppo, rimarrà per lungo tempo un terreno di caccia per bande più o meno affiatate e demagoghi più o meno improvvisati. L’unica speranza è che i fortini presenti riescano a sopravvivere a tutto questo, e i mecenati e la (esigua) élite culturale esistenti facciano fronte comune non per scendere in campo, ma per offrire le proprie risorse per un nuovo progetto di lungo periodo. Difficile aspettarsi che dopo vent’anni di prassi consolidata questi soggetti cambino, di punto in bianco, il proprio modo di agire. Ma non esistono molte alternative.
Per carità, la speranza è l’ultima a morire. Guardare alle altre esperienze europee, come già detto, potrebbe essere fonte di spunti anche importanti.
Ma la destra italiana non è la destra francese. E paragoni e sillogismi senza capo né coda non serviranno a nulla.
Se non a illudersi che un copia e incolla salverà una realtà in rovina.