I negoziati tra gli Stati Uniti e l’Iran per ripristinare l’accordo sul nucleare a Vienna non stanno dando i risultati sperati, solo negli ultimi giorni si è parlato di un molto parziale ottimismo.
Dopo anni difficilissimi per Teheran – segnati dall’economia al collasso, dall’impotenza dimostrata dagli iraniani di fronte all’uccisione del loro generale migliore e pure dinanzi alla vittoria turca a Idlib – la Repubblica Islamica è sempre più vicina a dotarsi della bomba nucleare. Ciò potrebbe portare Israele a fare quello che forse non vorrebbe: un attacco preventivo contro gli impianti nucleari iraniani. Eppure dovrebbero essere gli americani a risolvere il problema che loro stessi hanno aggravato.
Cosa è andato storto? Bisogna prima di tutto chiarire la cronologia degli eventi.
Scontro e negoziato: breve storia del programma nucleare iraniano
Già negli anni ’90 l’Iran iniziò a pensare al programma nucleare, anche per scopi militari. Senza sospetti da parte dei servizi segreti occidentali per diverso tempo. Primo errore dell’Occidente in tale faccenda.
Poi le ambizioni nucleari iraniane si fecero esplicite con l’ascesa del Presidente radicale antisemita Ahmadinejad. Ma a quel punto le agenzie di intelligence di Stati Uniti, Regno Unito e Israele si stavano già muovendo. Misero in campo un’efficiente campagna contro l’Iran, contenendo lo sviluppo del programma nucleare. Le cose però sembrarono cambiare con la Presidenza di Rohani, che è da considerare come un riformista nel panorama politico iraniano. Dopo svariate negoziazioni tra l’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – USA, Russia, Cina, Regno Unito e Francia – più la Germania e l’UE, si arrivò alla firma del JCPOA. Secondo tale accordo l’Iran si sarebbe impegnato a limitare al 3,67% il processo di arricchimento dell’uranio per 15 anni, una soglia lontana da quella necessaria per realizzare un’arma atomica. Temporalmente parlando, il governo iraniano avrebbe impiegato un anno per sviluppare la bomba dal momento di un’ipotetica violazione dell’accordo, quindi la comunità internazionale avrebbe potuto prendere delle contromisure. In cambio l’Occidente e l’ONU avrebbero tolto numerose sanzioni imposte in passato contro la Repubblica Islamica iraniana.
Tuttavia le relazioni tra l’Iran e Stati Uniti non migliorarono. Teherean continuava a ricercare l’egemonia regionale e a sostenere varie milizie mediorientali. E senza sanzioni la Repubblica Islamica aveva a disposizione più risorse per appoggiarle. Il fatto che Rohani fosse disposto a firmare un accordo non significava che fosse disposto a rinnegare tutta la politica estera iraniana. Di conseguenza, l’Iran aumentò pericolosamente la sua influenza che andava dall’Iraq e dalla Siria fino allo Yemen. Una mezzaluna sciita con il fulcro sullo strategico Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano e da cui passa il 20% dei barili di petrolio presenti sul commercio mondiale. Era ovvio che tale situazione non fosse accettabile.
Così l’amministrazione Trump rovesciò la politica di Obama. Si ritirò dal JCPOA, impose pesantissime sanzioni all’Iran, sostenne fortemente, pure a livello retorico, le monarchie arabe conservatrici del Golfo e Israele; tutti alleati storici dell’America ma critici del deal sul nucleare. Infine, gli USA aumentarono la pressione militare su Teheran in medio oriente colpendo alcune milizie filo iraniane. Fino ad ordinare l’uccisione del Generale iraniano Soleimani.
Poi venne Biden, che era convinto di riaprire i negoziati, anche dato il relativo indebolimento della Repubblica Islamica. Tuttavia non si arrivò velocemente ad un accordo.
Nel frattempo ci furono le elezioni in Iran, dove però i candidati devono essere approvati dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Si tratta dell’apparato statale che deve garantire il rispetto dei precetti rivoluzionari khomeinisti, è molto vicino alla Guida Suprema della Rivoluzione. É lì che si trova il vero nocciolo del potere nel sistema iraniano. Capace di imporsi sul governo politico se necessario. E fu così che i Guardiani della Rivoluzione rifiutarono la candidatura di diversi politici in modo da far eleggere Raisi, esponente della corrente conservatrice della politica iraniana. Il nuovo governo di Raisi ci mise molti mesi per tornare al tavolo dei negoziati, nel frattempo aumentò l’arricchimento dell’uranio, arrivando fino al 60% per mettere sotto pressione la controparte. Poi i diplomatici iraniani avanzavano richieste irrealistiche. Aggravando lo stallo.
Eppure, dopo l’elezione di Biden, il rientro americano nel JCPOA era dato per certo dalla grande maggioranza degli analisti di relazioni internazionali.
Il significato della contesa sul nucleare
Il fatto è che in Occidente quasi sempre si mal interpreta il vero significato del negoziato sul nucleare. L’idea superficiale è che il deal fosse perfetto, si potesse quindi reintegrare l’Iran nella mitica «famiglia delle nazioni» rafforzando l’ala riformista del regime. Al contrario, la linea dura di Trump ha rafforzato l’ala estremista del regime.
Sono tutti assunti sbagliati. É il classico atteggiamento di una parte degli osservatori quando l’Occidente deve confrontarsi con una dittatura: c’è una parte di regime con cui bisogna dialogare per permettere ad essa di rafforzarsi, arrivando ad una pacificazione. Idea che era presente pure durante la Guerra Fredda nei confronti dell’Unione Sovietica.
Tuttavia, come detto prima, Rohani non smise di sostenere i vari Hamas e Hezbollah. Questo perché anche se i riformisti iraniani vedessero con simpatia l’Occidente – e questo è un assunto molto incerto – non potrebbero comunque cambiare il fatto che nel perseguire i propri interessi nazionali e mantenendo fede ai precetti rivoluzionari iraniani (cioè cercando influenza all’estero e sostenendo varie milizie islamiste) la Repubblica Islamica inevitabilmente si contrapporrebbe all’America e minaccerebbe gli alleati americani della regione. Quindi si attirerebbe contro l’ira di Washington che deve difendere i suoi interessi e preservare la sua credibilità presso gli alleati.
Inoltre, l’Iran non ha nemmeno alcun interesse nel tornare a far parte di un’ipotetica famiglia delle nazioni, concetto a cui giustamente gli iraniani nemmeno credono. Al massimo il governo iraniano potrebbe dialogare con gli Stati occidentali per perseguire i propri interessi strategici con tattiche nuove. Il che comunque non permetterebbe una pacificazione, data la divergenza degli interessi in gioco.
Anche l’idea che il deal pensato dall’amministrazione Obama fosse perfetto è infondata. Il che è dimostrato dal fatto che la stessa amministrazione Biden, dove molti ruoli apicali sono ricoperti da persone che avevano negoziato quell’accordo con gli iraniani, voleva cambiarlo. Palesando gli insuccessi di Obama.
L’errore di fondo è proprio pensare che la soluzione di tutti i problemi tra l’America e l’Iran possa passare per un deal su un programma nucleare. Ingannati dalla propria propaganda, gli analisti wilsoniani (sostenitori del multilateralismo basato sul diritto internazionale come antidoto alla rivalità internazionale) scambiano il sintomo per la causa. Come affermato da Henry Kissinger nel suo libro World Order: «secondo la concezione politica degli ayatollah (il clero sciita a capo del regime iraniano), la disputa con l’Occidente non è una questione di formule di negoziato, ma è una disputa sulla natura dell’ordine mondiale». Tradotto: la controversia sul nucleare è l’effetto dell’ostilità strutturale tra l’Iran e l’America, non la causa. Se l’Iran fosse inserito, o se volesse inserirsi, nel sistema regionale, non avrebbe alcun motivo per dotarsi della bomba atomica. Né gli altri Stati della regione avrebbero paura di tale eventualità.
Il JCPOA fallì non per Trump, ma perché non risolveva la questione del ruolo iraniano nella regione. Lungi dall’avvicinarsi alla «comunità internazionale», l’Iran ha rafforzato la propria influenza nella regione fino al 2017/18 e il sostegno ai gruppi armati mediorientali al suo soldo. Tali attività e il programma nucleare sono due aspetti del più generale ruolo iraniano in Medio Oriente che non possono essere considerati in modo separato.
La sfida iraniana: tra rivoluzione e impero
Bisogna quindi chiarire la posizione internazionale dell’Iran dal principio, dalla Rivoluzione del ’79. Questa è stata innanzitutto una sfida rivoluzionaria all’ordine regionale basato sugli Stati. Il fine primario della Repubblica Islamica era quello di esportare la rivoluzione, rovesciando gli altri Stati laici, ordinamenti considerati illegittimi nella dottrina degli ayatollah. Utili solo per portare avanti la lotta religiosa.
L’elemento rivoluzionario della Repubblica Islamica dell’Iran è dimostrato già dal titolo della carica più alta dello Stato, che è la Guida Suprema della Rivoluzione (Rahbar). Una rivoluzione non limitata solo all’Iran. I gesti riconciliatori da parte occidentale non possono cambiare questa realtà. Il che viene plasticamente esemplificato da alcune frasi della Guida Suprema Ali Khamanei espresse durante i negoziati del JCPOA. Nel maggio 2014 disse ad esempio che tutti i funzionari del Paese, pure quelli impegnati nei negoziati internazionali, dovevano essere «consapevoli che stanno combattendo per l’instaurazione del sistema islamico e che il jihad è senza fine perché Satana e il fronte satanico esisteranno in eterno».
L’elemento rivoluzionario islamico è comunque solo una componente della Repubblica Islamica. Questi principi islamisti si sono istallati in un Paese che ha una millenaria tradizione imperiale e una grande conoscenza dei propri interessi nazionali. La Persia è una civiltà e un impero con una lunga storia di supremazia regionale esercitata attraverso la propria grandezza culturale, basata anche sull’assimilazione di elementi culturali degli altri popoli limitrofi. Una caratteristica classica dei grandi imperi.
La Persia è stata però anche terra di conquista di altri imperi, ma durante tali conquiste i persiani hanno sempre mantenuto la propria alterità culturale e la fiducia nella superiorità della propria civiltà. Come la Cina durante il secolo delle umiliazioni, ma la Persia ci riuscì più volte durante la storia, come se fosse rinata da molteplici «secoli delle umiliazioni».
La massima esemplificazione di tale capacità fu quando i persiani furono conquistati dagli eserciti arabo-islamici. La Persia adottò l’islam ma lo legò alla propria cultura, mantenendo la propria peculiarità, testimoniata pure dallo sciismo.
La Repubblica Islamica dell’Iran nel suo metodo di governo ha combinato la consapevolezza imperiale con il fervore rivoluzionario (in modo simile alla Cina comunista di Mao), ha mantenuto normali rapporti diplomatici con altri Stati, ma nel frattempo negava la legittimità degli Stati. Ne è uscita una Potenza che estende la propria influenza sostenendo milizie islamiste sciite, ma pure sunnite, che sfidano gli altri Stati della regione. Riassorbendo l’esportazione della rivoluzione in una politica estera cinica e a tratti pragmatica.
Da tali elementi bisognerebbe partire quando si ragiona sul come dialogare con l’Iran.
I rischi dell’approccio occidentale al negoziato con Teheran
Durante i negoziati per il JCPOA parte dell’establishment occidentale ha commesso l’errore di proiettare le proprie esperienze al contesto iraniano. Da tale punto di vista, il negoziato non poteva che portare a buoni risultati dato che entrambe la parti – amministrazione Obama e governo Rohani – erano riformiste. Addirittura si facevano imbarazzanti parallelismi tra i due leader. Rohani veniva descritto come un Obama iraniano, come se questo avesse potuto cambiare la realtà politica nelle quale i due governi agivano.
Vennero fatti anche parallelismi storici sbagliati. Il negoziato sull’Iran venne paragonato al riavvicinamento tra l’America di Nixon e la Cina maoista degli anni ’70. Improvvisamente i progressisti wilsoniani erano divenuti fan della realpolitik. Obama come un moderno Kissinger che in nome del realismo spaventa pure i suoi alleati regionali. Ma fu lo stesso Kissinger a dire che il paragone semplicemente non reggeva. I cinesi all’epoca erano minacciati da quarantadue divisioni sovietiche concentrate sul confine. L’intesa tra USA e Cina funzionò proprio in quanto evitava il dominio sovietico sull’Asia, che avrebbe permesso all’URSS di spostare tutta la sua forza verso l’Europa, mentre la Cina era troppo debole per cercare un simile obiettivo.
In modo diametralmente opposto, in Medio Oriente nei primi anni dello scorso decennio proprio l’Iran era l’attore messo meglio. Stava aumentando la propria influenza mentre i suoi rivali arabi come i Sauditi e l’Egitto avevano, e hanno, seri problemi interni. Nemmeno il comune nemico rappresentato dall’ISIS poteva portare americani e iraniani a collaborare seriamente. Infatti lo Stato Islamico non è mai stato abbastanza potente da divenire una minaccia vitale per i due Stati come l’URSS lo era stata nel contesto descritto prima. Tale nemico in comune potrebbe un giorno diventare la Turchia, ma al momento Ankara si muove in modo troppo lucido, evitando quindi lo scontro con Washington.
A tutti questi errori si aggiunse un’errata impostazione della negoziazione, ancora prima dell’ascesa di Obama. Le linee rosse messe dall’America verso l’Iran furono ammorbidite più volte, senza ricevere nulla in cambio dagli iraniani. Nel 2004 si chiedeva all’Iran di porre termine totalmente al proprio programma, poi nel 2009 si concesse all’Iran di arricchire l’uranio a basse percentuali per poi inviarlo all’estero in modo che la Russia e la Francia potessero convertirlo al 20%, invece nel 2013 si propose all’Iran di conservare la sua quantità di uranio arricchito al 20%. Gli occidentali fecero quindi capire che per loro le conseguenze di un attacco militare agli impianti iraniani erano più pericolose rispetto all’avanzamento del processo di arricchimento dell’uranio da parte di Teheran.
Al contrario, per i funzionari iraniani le negoziazioni non erano che un aspetto collegato alla lotta più generale per la supremazia regionale e ideologica; da combattere con più mezzi: diplomazia, propaganda e operazioni paramilitari. Fecero capire che la loro linea non sarebbe stata piegata facilmente.
Quindi la strategia della massima pressione di Trump era quella giusta?
In realtà, anche se negli ultimi anni l’Iran è entrato in una fase difficilissima, l’amministrazione Trump era troppo divisa internamente per delineare un atteggiamento coerente, cioè sapere davvero che cosa si voleva raggiungere, nei confronti di Teheran. Erano tutte azioni impulsive: molte sanzioni e qualche pressione militare negli ultimi due anni. Senza avere chiaro come reimpostare un negoziato. Il che ha ovviamente portato l’Iran ad arricchire ulteriormente l’uranio. E a convincersi dell’inutilità del negoziato stesso, data la sua natura transitoria.
Il punto è che anche l‘amministrazione Biden ha già commesso diversi errori. Ha sbagliato a dire apertamente che sarebbe rientrato nel vecchio JCPOA durante la campagna elettorale, già nelle prime fasi addirittura. Ciò è equivalso a dire all’Iran di resistere ancora un po’ e vedere come andavano le elezioni americane. Infatti, certi dal fatto che Biden intendeva tornare all’accordo, gli iraniani ne hanno approfittato, prendendo tempo per aumentare l’arricchimento dell’uranio arrivando al 60%. Senza reazioni da parte americana.
Poi sbaglia a non rispondere alle provocazioni che gli iraniani lanciano con le loro milizie contro i militari americani in Medio Oriente. Lo fa forse per non mettere a rischio le negoziazioni. Ma il modo peggiore per negoziare è proprio pensare che il negoziato diplomatico costituisca un momento separato dall’uso della forza militare. Al contrario, un’azione militare limitata può essere usata come un mezzo per negoziare, proprio come fanno gli iraniani. L’atteggiamento dell’amministrazione Biden rischia invece di minare sia i negoziati che la deterrenza.
Inoltre, l’amministrazione Biden dovrebbe mostrarsi particolarmente vicina agli Stati più minacciati dall’attivismo iraniano durante queste negoziazioni. Qualche viaggio in Israele e le frasi di un alto funzionario americano su possibili esercitazioni congiunte con gli israeliani non bastano. Quest’ultimo elemento è stato esplicitato pure dal Presidente francese Macron, per il quale non è pensabile raggiungere un deal senza coinvolgere lo Stato ebraico e gli Stati arabi del Golfo.
L’Occidente deve obbligatoriamente sostenere Israele nella sfida contro l‘Iran. Non perché gli israeliani siano più democratici degli iraniani (e comunque chi considera il regime iraniano migliore del sistema politico israeliano dovrebbe essere rinchiuso), ma in quanto Israele non potrà mai dominare la regione mediorientale. L’Iran invece potrebbe, ed è uno scenario assolutamente ostile agli interessi europei e degli Stati Arabi.
Come detto da Kissinger, l’Iran può essere o uno Stato o una causa (cioè un attore che esporta i propri precetti rivoluzionari sostenendo gruppi militari in altri Paesi). Il compito dell’Occidente deve essere quello di costringere l’Iran a essere uno Stato. Cioè un attore che non minaccia gli altri Stati, in quel caso i rapporti potrebbero migliorare.
Senza una minaccia credibile, nessun accordo accettabile è raggiungibile. A tal fine serve l’impegno degli americani, non con l’aumento di uomini sul campo o con un pericoloso regime change, ma garantendo un’efficace deterrenza.
Un Iran nucleare porterebbe tutti gli altri Stati arabi rivali a procurarsi in qualche modo armi nucleari. Tale proliferazione renderebbe il calcolo della deterrenza molto più complicato.
Inoltre, non tutti questi Stati potrebbero essere in grado di difendere adeguatamente i propri arsenali che quindi sarebbero a rischio. Ciò aumenterebbe la tentazione di usarli in un attacco preventivo per impedire che vengano distrutti.
Ecco perché l’arma nucleare deve assolutamente rimanere un oligopolio di pochi Stati che le hanno da tempo e che hanno elaborato delle valutazioni comparabili dei pericoli derivanti da tali armi, che è ciò che permette alla deterrenza nucleare di funzionare.
Anche un Iran vicino al nucleare aumenterebbe la possibilità di una guerra che finirebbe per trascinare gli Stati Uniti in un conflitto in una regione in cui non vogliono più dissanguarsi.
La complessa situazione attuale è figlia di una catena di errori commessi da diverse amministrazioni americane in medio oriente. Che parte dai gravi fallimenti dell‘invasione dell’Iraq, la quale aprì un vuoto facile da sfruttare per l’Iran, che si rafforzò grazie all’involontario assist americano. È tempo di porre fine a questa catena, partendo dall’essere consapevoli delle vere cause dell’ostilità tra l’Iran e gli altri Stati. Soprattutto dato che il momento di difficoltà vissuto dall’Iran, testimoniato pure dalle ultime notizie siriane, ne aumenta la pericolosità.