L’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega ha visto la condanna all’ergastolo dei due ventenni americani che gli infersero 11 coltellate. Anche di fronte ai delitti più efferati è importante interrogarsi sulla legittimità dell’ergastolo. Condannare a 60 anni di carcere chi ha commesso un errore a 20, anche il più grave degli errori, non è cosa da Paese civile. Poco importa cosa avrebbero fatto in America.
Il 26 luglio 2019, dopo lo scambio di una partita di cocaina finito male Rega veniva ucciso da Finnegan Lee Elder, con la complicità di Gabriel Natale Hjorth. Il giudice ha accolto la tesi dell’accusa secondo cui, entrambi i californiani, cercarono di comprare una droga pesante a Trastevere tramite Sergio Brugiatelli, “facilitatore di pusher”, che li accompagnò da Italo Pompei: quest’ultimo li ingannò, vendendo loro una pastiglia di Tachipirina. Elder e Hjorth, accortisi della truffa, pianificarono quindi il furto dello zaino di Brugiatelli, dal contenuto ignoto, per proporlo poi in uno scambio al fine di recuperare i soldi pagati a Pompei. I contorni della vicenda non sono chiari e le ricostruzioni di accusa e difesa non coincidono, non è da escludersi un capovolgimento in appello.
Secondo la difesa Brugiatelli, tramite vie traverse, allertò il carabiniere Rega e il collega Varriale che si presentarono allo scambio per recuperare lo zaino in borghese, da una via laterale, senza identificarsi e assalendo per primi i due americani.
Secondo l’accusa, supportata anche da alcuni testimoni, i carabinieri si presentarono disarmati, frontalmente, mostrarono il tesserino, ma furono aggrediti all’improvviso da Elder, che presumibilmente pensava di trovarsi nuovamente di fonte ad un raggiro.
Poco importa in realtà, un uomo è morto perché è stato accoltellato per strada 11 volte. Un servitore dello Stato che stava compiendo il suo lavoro in un contesto difficile. Eppure l’ergastolo è la pena sbagliata, perché anche se ci basassimo sulla mera funzione punitiva della privazione della libertà individuale finiremmo col punire, passati 20 anni, una persona totalmente diversa. Oltre all’Elder ventenne infieriremmo gratuitamente anche sull’Elder quarantenne e sull’Elder sessantenne, che non saranno la stessa persona che ha commesso il crimine.
Gli esseri umani cambiano, si muovono, si evolvono e sono principalmente il prodotto dell’ambiente che li circonda, a dispetto di una continuità esistenziale che sembrerebbe presupporre un’identità statica, marmorea nei decenni.
Al netto di eventuali sconti di pena da decidersi in futuro, vent’anni sarebbero già tanti, con l’ergastolo ne potrebbero statisticamente passare 60/70 prima della morte in cella dei condannati. Troppi per continuare a punire una persona. Le opzioni sono due: o il condannato non ricommetterebbe il crimine e quindi non ha più senso punirlo, o lo commetterebbe di nuovo e quindi la detenzione non ha raggiunto alcuno scopo rieducativo, come costituzionalmente sancito dall’articolo 27.
Tra l’opinione pubblica v’è un’inversione di tendenza ben visibile negli ultimi anni, che cede dopo secoli di de-criminalizzazione ad una nuova spinta penalistica. “Buttare via la chiave” è la scelta più facile, più dissetante, ma non è quella più giusta. 15 anni di carcere dovrebbero essere sufficienti per qualsiasi reato, laddove non vi sia una ragionevole probabilità di reiterazione. Discorso diverso per l’ergastolo ostativo, ovvero per una detenzione che continui indefinitamente laddove il condannato non intenda collaborare con la giustizia e prendere le distanze, ad esempio, dalla cosca mafiosa d’appartenenza. Ovviamente in questo caso la probabilità di reiterazione del crimine è molto alta ed, in alcuni casi, non si azzera neanche da dietro le sbarre. Parliamo a tutti gli effetti di condannati che sono ancora dei criminali, a differenza di coloro che hanno commesso un reato 15 anni prima.
Continuare a punire questi ultimi per 60 anni è disumano, significa anzitutto gettare la spugna di fronte alla difficoltà rieducativa, ma soprattutto significa sancire che chi commette un crimine resti un criminale a vita, in netto contrasto con i principi d’intenzionalità e la possibilità di redenzione che è propria della cultura occidentale.
Cosa sarebbe successo in America è affare degli americani, dove 2500 persone sono state condannate all’ergastolo perché commisero un crimine quando minorenni, tra cui l’allora diciassettenne Timothy Jackson, reo d’aver rubato un cappotto da 159 dollari. Jackson rientra anche tra i 3281 condannati all’ergastolo per crimini non violenti. Non penso dovremmo prendere ad esempio un Paese che nel 2017 vantava tra i condannati a morte il 43% di diagnosi di malattia mentale e che resta tremendamente schiavo del prison business. Ad ogni modo è interessante notare come l’erba del vicino sia sempre più verde, sui social infatti si sono letti anche diversi commenti di americani che sostenevano come stavolta la giustizia fosse stata servita anche per i bianchi privilegiati figli di papà, sottintendendo che negli USA Elder e Hjorth sarebbero stati giudicati con meno severità.
Se è vero che, come scriveva Voltaire, “il grado di civiltà di una nazione si misura dalle condizioni delle sue carceri” è anche vero che il perdurare oltremisura della pena assume una valenza dirimente. Nel momento in cui ha raggiunto lo scopo prefissatosi, continuare ad applicarla significa punire un innocente, quale che sia il crimine.
Se il nostro senso di giustizia è dettato da una mera volontà punitiva, al punto che ci sentiamo in pace con noi stessi solo quando di fronte ad una vita distrutta siamo autorizzati a distruggerne un’altra, il luogo giusto per discuterne non è l’aula di un tribunale, ma lo studio di uno psicanalista.