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Antiamericanismo e anticapitalismo: l’origine è nell’invidia

«L’America appare oggi, a qualsiasi osservatore, in una fase di estrema crisi e impigliata in mille
contraddizioni.» Scriveva così il giovane Tiziano Terzani in un articolo degli anni Sessanta dagli Stati Uniti.
Molto è cambiato da allora: le democrazie sono aumentate di numero, il progresso è arrivato anche laddove non era esistito per secoli, l’economia di molte realtà povere ha conosciuto per anni una crescita a doppia cifra, il livello dei diritti umani si è alzato notevolmente e le diseguaglianze a livello globale sono scesa scese anche grazie alla globalizzazione e al sistema capitalista. Di tutto ciò, gli Stati Uniti – nel bene e nel male, tra contraddizioni e controversie – sono stati grandi promotori. Eppure, oggi come negli anni Sessanta, l’Antiamericanismo è un’evergreen, una vera e propria moda, difficile da estirpare. L’ Antiamericanismo è una professione per alcuni e uno sport per altri: consente di sfogare le frustrazioni su un soggetto preciso, ma in realtà molti critici hanno in odio Washington perché non ne sopportano il sistema capitalista e non si rassegnano alla momentanea mancanza di alternative valide nel produrre al contempo ricchezza e rispetto dell’individuo, in un regime di libera concorrenza.

Come spiega Nick Cohen, «l’America attira naturalmente risentimento e sospetto perché è l’unica superpotenza del mondo». Il nesso tra l’Antiamericanismo e l’Anticapitalismo è evidente: se è vero che non tutti gli antiamericani sono anticapitalisti, è quasi sempre vero che tutti gli anticapitalisti sono antiamericani.

In un articolo del luglio 1964 su The New York Times, Cyrus Leo Sulzberger sollevò sillogisticamente e provocatoriamente il problema del rapporto Anticapitalismo-Antiamericanismo: il capitalismo è il male; gli Stati Uniti sono il paese capitalista per eccellenza, quindi gli Stati Uniti sono il male.

Nell’articolo “La colpa è del capitalismo” (Corriere della Sera, 28 luglio 1919) Luigi Einaudi spiegava
l’odio nei confronti del capitalismo, definito come una «forma di organizzazione economica della società, per cui iniziative ed il rischio della produzione spetta ai singoli imprenditori.» Dunque, polemizzava Einaudi «i viveri sono cari? La colpa è dell’organizzazione capitalistica […] La guerra è stata scatenata dagli imperi centrali? La colpa del capitalismo che spinge le nazioni le une contro le altre armate per la conquista dei mercati mondiali. La pace di Versailles e non è pienamente soddisfacente per tutti? La colpa è degli interessi del capitalismo anglosassone […] In Russia ed in Ungheria […] i viveri sono più cari e rari che nei paesi non comunisti? La colpa del capitalismo […], il quale […] suscita eserciti reazionari contro i tentativi di nuove società comuniste».

L’Anticapitalismo dei più è come l’Antisemitismo di tanti: la ricerca di un capro espiatorio in un concetto (o un popolo) da additare per rafforzare le proprie concezioni socioeconomiche.
Gli Stati Uniti si basano sul sistema meritocratico e capitalista: di solito chi è contro il merito è anticapitalista. Ad ogni modo, l’America non è sempre stata un paese capitalista, ma il sistema basato sulla libertà economica è stato abbracciato dagli americani sin dal diciottesimo secolo. E proprio perché la libertà economica era riconosciuta come la premessa necessaria per l’agire dell’uomo (in risposta alle sclerotizzazioni europee della società mercantilistica del tempo), gli Stati Uniti svilupparono la nozione di american dream, di promessa di successo dietro un’abbondante dose di impegno, speranza, dedizione e passione. Da qui il nesso con il concetto di merito.

Seguendo le parole di Alan Friedman, il sogno americano «era incentrato sulla mobilità sociale verso l’alto e sulla promessa di un futuro migliore […] L’ideale americano, una terra vasta e ricca di prosperità condivisa, in cui ognuno poteva prendersi il proprio pezzo di torta. Uguali diritti e uguali opportunità di arricchirsi, di farcela, a prescindere da razza, fede o colore della pelle».
Gli Stati Uniti «ti si offrono delle opportunità; se ce la farai, sarà merito tuo, del tuo talento e dei tuoi sforzi; se invece non ce la fai, devi prendertela con te stesso, non dare la colpa alla società, al sistema; non aspettarti aiuti dallo Stato», ha scritto Federico Rampini.

Il capitalismo e le sue possibili storture dovute alla sua applicazione in contesti di fragilità istituzionale ed economica è sempre stato l’alibi di alcuni per essere antiamericani. Tuttavia il grosso delle soluzioni proposte ed addotte dai critici in materia economica non sembra aver funzionato in alcun sistema sociale nei decenni. In altri termini, sembrerebbe che per ora il capitalismo più o meno temperato da dosi di libero mercato e/o Stato sociale, sia il peggiore dei sistemi economici fatta eccezione per tutti gli altri, per parafrasare Winston Churchill. La soluzione che prevede un’economia pianificata basata sul collettivismo o su ubriacature di assistenzialismo populista e pauperista non ha fatto altro che produrre tragedie umane. Il che non vuol dire che il capitalismo sia il Bene supremo.


L’Antiamericanismo s’intreccia perfettamente con l’Anticapitalismo per almeno due ragioni. La prima
riguarda i consumi e la globalizzazione, accusate dai critici in una crociata contro il “dio denaro”, animata da un sentimento antindustriale, antimeritocratico, anti-progresso (eppure molti critici anti-USA e anticapitalisti si definiscono “progressisti”). La demonizzazione del consumismo in particolare, come sottolinea Pierluigi Battista, «denuncia una forma di disprezzo per chi fatica e lavora duro per entrare in una dimensione di benessere, di agiatezza, di superamento di una condizione in cui a essere soddisfatti sono soltanto, e nemmeno sempre, i bisogni primari» (Corriere della Sera, 1° dicembre 2019).  

Distruggere il consumismo, lanciare squalifiche morali nei confronti di chi ama il consumo, altro non fa che danneggiare le classi sociali più fragili.
Come scrisse Jean-François Revel, «l’avversario principale dei no global è l’economia liberista, non la dittatura. Non è nemmeno la povertà, checché proclamino nei loro slogan. Quel che a loro importa non è sradicare la povertà, è far credere che sia causata dal liberismo e dalla mondializzazione». L’odio antiamericano e quello anticapitalista nascono dalla stessa radice: quella dell’invidia di chi vorrebbe che sia l’uguaglianza sociale piuttosto che la libertà individuale a farla da padrona nella vita dei singoli per poterli controllare meglio e avere voce in capitolo nelle loro preferenze.
Come spiega Ayn Rand, «non è per i loro difetti che gli Stati Uniti d’America sono odiati, ma per le loro virtù – non per le sue debolezze, ma per i loro successi». L’invidia è l’architrave, l’origine e la spiegazione dell’anti-meritocrazia, dunque dell’Antiamericanismo, dunque dell’Anticapitalismo.
Il capitalismo è perfetto? No. L’America è perfetta? No. Alberto Pasolini Zanelli ha spiegato che quest’ultima «è il paese più opulento e più forte della Terra, il più vulnerabile e il più urlato. Ha vinto tutte le sfide ed è solo di fronte a se stesso. Nessun’altra società ospita tanti estremi e tante razze. Nessuna ha tanti miliardi, tanti criminali e tanti premi Nobel, tanti figli illegittimi e tanti aborti, tante persone in carcere, tanti analfabeti. Tanta voglia di vivere e tanta di morte […] In America […] si costruiscono astronavi e […] si fondano religioni […] È il laboratorio del mondo e della storia, della vita e dunque della sofferenza. Tutte queste responsabilità ricadono su un popolo di mediocre cultura e di incerta preparazione, dalle molte ansie, di varie speranze […] Si dovrebbe avere meno odio e forse anche meno ammirazione e certo meno invidia per questo popolo».

Ma invidia e odio (di classe) sono alla base di alcune dottrine disposte ad annientare il sistema capitalista nel suo insieme – a costo di rendere i poveri ancora più poveri, come avverrebbe – pur di portare avanti la propria santa crociata contro l’America e il capitalismo nel complesso.


Amedeo Gasparini
www.amedeogasparini.com

 

1 comment

Dario Greggio 25/11/2020 at 12:40

PERFETTO! sei stato grande :)

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