Il tema del regionalismo è tornato alla ribalta nelle ultime settimane a causa della questione sulle competenze relative alla pandemia in corso. Ci sono evidenti problemi, per i quali vanno trovate soluzioni. Per molti l’emergenza sanitaria ha rappresentato un’occasione per riaffermare un centralismo di stampo ideologico e ignaro del valore che le autonomie racchiudono.
Nell’ultimo periodo sono infatti riemersi gli appelli per riportare la competenza sanitaria sotto l’egida statale e le proposte che più spesso si affacciano nelle aule parlamentari sono dell’ordine di trasferimenti e ritrasferimenti di materie all’uno o all’altro ente.
Certo: il nostro regionalismo è malfunzionante. Le ragioni sono molteplici e, come spesso accade, non sono quelle che la politica ci racconta. Perlomeno non del tutto. Di sicuro la questione Coronavirus può essere utile a riaprire il dibattito.
Le questioni aperte del regionalismo in Italia non sono tanto le funzioni e le attribuzioni delle Regioni, quanto piuttosto i) un riparto per materie non univocamente interpretabile, ii) la mancanza di raccordi centro-autonomie adeguati e iii) una ancora incompleta responsabilizzazione degli enti territoriali.
Iniziando dal riparto materiale, l’art 117 Cost. ne propone di tre tipi: esclusive statali, concorrenti e residuali regionali. Queste ultime hanno un’importanza ormai trascurabile in seguito alla lettura centralistica che la Corte costituzionale ha impresso al Titolo V post-riforma del 2001.
Le materie concorrenti sono molte, alcune importanti (energia, trasporti) e, soprattutto, sono pensate secondo uno schema principio/dettaglio di complessa applicazione. Il loro problema è duplice: da un lato è estremamente arbitrario stabilire cosa sia un principio e cosa un dettaglio; dall’altro ci vogliono una legge statale e venti regionali per normare una materia. Non il massimo per un Paese iperlegificato come il nostro…
Infine, le materie esclusive statali. Tra queste ve ne sono alcune, come la tutela della concorrenza, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti o la tutela dell’ambiente che sono «trasversali» secondo la Consulta: cioè, tutelando un valore o perseguendo un fine pubblico, possono invadere le competenze regionali. Esempi sono riscontrabili nelle sentenze 282/2002, 10/2010, 174/2017.
Il sistema è impostato rigidamente, la Consulta ha cercato di flessibilizzarlo attraverso il ricorso a rimedi «pretori» (tra cui la trasversalità appunto) che però, spesso, non tengono in considerazione gli interessi regionali: in sintesi, la mancanza di strumenti o luoghi istituzionali per la composizione delle divergenze ha favorito la litigiosità tra Stato e Regioni, facendo esplodere il contenzioso costituzionale, assestando dunque un altro colpo alla certezza del diritto in Italia.
La seconda questione si collega alla precedente ed è relativa ai raccordi. La Consulta, come si è visto, ha dovuto operare da supplente rispetto alla mancanza di luoghi istituzionali adeguati a flessibilizzare il riparto. Qualcuno potrebbe dire che le Conferenze sono state pensate apposta. In realtà, il loro funzionamento prevede che lo Stato possa superare i dissensi unilateralmente, semplicemente motivando la propria decisione. Dove vanno a finire gli interessi regionali in questo modo? Di fatto vengono considerati recessivi. Si aggiunga poi che le Conferenze non hanno rango costituzionale.
Infine, la responsabilizzazione degli enti. La famosa legge su costi e fabbisogni standard è rimasta inattuata, per ora rinviata al 2020, ma in piena emergenza è ragionevole pensare che la loro definizione sarà ulteriormente rimandata. I costi standard rappresenterebbero un risparmio e, probabilmente, un efficientamento della spesa pubblica. Ma non è detto che basterebbero a responsabilizzare i governi locali.
Quali potrebbero essere le soluzioni? Le possibilità sono diverse, ma alcune sembrano prestarsi maggiormente a migliorare le istituzioni italiane.
Per quanto riguarda le competenze, le materie sono necessarie in certa misura a fornire appigli testuali in caso di contenziosi, ma da sole non sono sufficienti a precisare il riparto. Non ci sono ambiti che per natura è meglio affidare allo Stato o alle Regioni: la scelta è sempre di opportunità politica. Nel caso italiano, è opportuno limitare la produzione legislativa. Come? Anzitutto, riattribuendo allo Stato la funzione di legislatore generale, enumerando invece le materie di competenza legislativa regionale e rendendole di esclusiva titolarità delle Regioni. Ciò può avvenire o mediante un’elencazione simile a quella riscontrabile negli Statuti speciali; o attraverso forme di negoziazione differenziata, come previsto dall’art. 116 Cost. o dalla Costituzione spagnola o ancora dalle forme di devolution operate nel Regno Unito a vantaggio della Scozia o dell’Irlanda del Nord. In entrambi i casi, il vantaggio sarebbe la maggior precisione nella definizione delle materie di competenza rispetto agli elenchi contenuti all’art. 117: un simile risultato sarebbe proprio delle negoziazioni o degli Statuti di autonomia speciale.
Per quanto concerne le competenze concorrenti, queste non sono strettamente necessarie. Meglio sarebbe prevedere la possibilità che un Senato federale partecipi paritariamente alla Camera dei deputati all’approvazione di poche tipologie di leggi e non sia inserito nel circuito fiduciario.
La Camera alta in questione sarebbe il raccordo istituzionale paritario che manca al nostro sistema. Potrebbe essere eletta secondo i più diversi modelli che il panorama delle Costituzioni federali ci fornisce. Sembra però preferibile l’opzione per una formula che porti i rappresentanti degli esecutivi regionali a votare in Parlamento, come per il Bundesrat in Germania: in questo modo, si potrebbero fondere le funzioni di coordinamento amministrativo delle Conferenze alle istanze di partecipazione legislativa.
Posto infatti che le competenze amministrative dovrebbero rimanere attribuite agli enti locali e alle Regioni e che, anzi, l’amministrazione statale dovrebbe essere limitata allo stretto indispensabile, in caso di bisogno, l’Italia avrebbe un luogo istituzionale idoneo a flessibilizzare il riparto amministrativo. Nel caso Covid, un simile Senato delle Regioni avrebbe rappresentato il fulcro ideale tra centro e periferia per una gestione concordata nel segno della leale collaborazione e della sussidiarietà.
Si diceva che le leggi da approvare collettivamente dalle due Camere dovrebbero riguardare poche materie. Ne basterebbero tre tipi: le modifiche alla Costituzione e le leggi costituzionali, le leggi sui livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali e quelle tributarie.
Cosa può responsabilizzare la politica più di dover rispondere ai propri cittadini della spesa pubblica perpetrata in un arco temporale? Per massimizzare la responsabilizzazione e avvicinare la cosa pubblica al cittadino, è opportuno che gli enti locali e le Regioni possano modulare le imposte e le tasse fissate da una legge statale approvata collettivamente. Senza una partecipazione paritaria a livello centrale per la definizione dell’imposizione fiscale, le Regioni non potrebbero mai esercitare effettivamente questo potere. Potendo manovrare il gettito, invece, avrebbero finalmente l’opportunità di valorizzare al massimo la differenziazione e le prestazioni in eccesso rispetto ai livelli essenziali dei diritti.
In sintesi: all’Italia serve un autentico federalismo fiscale ed amministrativo che non escluda una dose di differenziazione legislativa, valorizzi la collaborazione leale tra enti in un luogo politico idoneo e responsabilizzi gli amministratori locali.
Riforme ambiziose, in realtà modulabili e che potrebbero ottenere un largo consenso, così come l’idea di fondere tra loro alcune realtà territoriali sottodimensionate e inefficienti.
La realtà politica induce però a cedere al pessimismo: la prossima riforma costituzionale manterrà un bicameralismo del tutto inefficiente, ulteriormente distorto da un grossolano taglio dei parlamentari, pure potenzialmente pericoloso.
Riordinare la forma di Stato significa ben altro.
2 comments
Mi pare un discorso ragionevole. Scendendo di livello e non da giurista ma da semplice cittadino e uomo d’azienda, vorrei limitarmi a dire quello che a me sembra non vada:
1) Mi domando: anni fa la Fondazioine Agnelli aveva fatto uno studio sulle regioni, affermando che erano troppe e indicava in 12 il loro numero ottimale. Mi sembra vi sia stata una tendenza a moltiplicare i governi locali. Abbiamo ad esempio credo oòltre 8000 comuni. In Italia vi è una legge che ne favorisce la riduzione, l’accorpamento. In Francia lo si è imposto, e il numero si è fortemente ridotto. Vi sono dei criteri dimensionali ottimali che andrebbero definiti, senza favorire la tendenza dei politici/politicanti a moltiplicare i ruoli, sindaci, assessoru, consiglieri comunali e delle aziende partecipate. Aggiungo, sono vecchio, 82 anni, e ai tempi quando andavo a scuola in Sardegna vi erano tre province, Cagliari, Sassari, Nuoro. Perché si sono moltiplicate, per quel che resta della provincia ora né carne né pesce?
2) Abbiamo delle regioni amministrate bene, o abbastanza bene, in genere al Nord. Altre come la Sicilia che non lo sono. Certo è regione autonoma, ma quasi a parità di abitanti dell’Emilia Romagna costa 10 volte tanto. Allora, sicuramente possono avere una certa forza correttiva gli standard dei quali accenna anche l’articolo, ma mi domando: è possibile concedere alle regioni un’autonomia fiscale col potere di determinare per le imposte o le accise loro riservate il livello delle stesse, in modo che il cittadino elettore possa poi giudicare se la gestione è buona o cattiva confrontando il livello dei servizi, sanitari in primo luogo, con il peso della fiscalità. Perché una regione può moltiplicare ad esempio i primariati negli ospedali e un’altra ottimizzarne il dimensionamento, p.es. come è avvenuto a Venezia dove in genere un primario copre sia l’ospedale di Venezia storica che quello, oramai più importante, di Mestre? E una regione Sicilia che spende e spande a 360°, con 90 consiglieri che si onorano di chiamarsi deputati, strapagati, unico centro motore di un’economia isolana basata sull’assistenzialismo, le amicizie, le parentele, se non sulla mafiosità diffusa, tipico esempio di quel familismo amorale che troppo caratteerizza il ns. Paese?
Ed è pensabile – ma è solo un interrogativo che mi pongo – avere dei parametri di performance, prendendo a modello il controllo di gestione di una multinazionale, col potere di un ente di controllo, non necessariamente del governo che può decidere con parzialità politica, di commissariare la regione in caso di scostamenti macroscopici? E’ forse una domanda da ignorante, ma forse di buon senso.
3)Infine, mi pare che l’attuale regime giuridico di fatto sia una tetta ma mungere per gli avvocati, data la mole di contestazioni sulle competenze Stato/Regione.
Gentile Aldo,
leggo con piacere il suo commento. Su molte cose siamo d’accordo, le rispondo rispettando i suoi punti:
1)sicuramente ritengo utile la fusione di Comuni e Province di ridotte dimensioni, perché razionalizzare sarebbe buono sia in termini organizzativi sia di risparmio economico. Esistono forme collaborative tra Comuni che però non hanno portato ai risultati sperati. Si spera che qualche Governo prima o poi riesca ad accordarsi con le Regioni per ridimensionare gli enti locali, politicamente cosa non facile. Per quanto riguarda la dimensione delle Regioni o il loro numero, sono temi più controversi e credo dipendano dalle funzioni che si vogliano attribuire alle medesime;
2)è pensabile quello che Lei chiede: l’art. 119 Cost. prevede che Regioni ed enti locali abbiano tributi propri, in armonia con Costituzione e i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Purtroppo, nessuna legge del genere è mai stata pensata, nemmeno da quei partiti che, perlomeno un tempo, si facevano paladini dell’autonomia. E’ vero anche che le Regioni dispongono già di compartecipazioni ai tributi relative ai rispettivi territori. In ogni caso, il suggerimento dell’articolo è proprio quello di fare in modo che le imposte vengano decise da un Parlamento in cui la Camera alta rappresenti le Regioni, così che ci sia coordinamento e differenziazione;
2.1)i parametri di performance da Lei citati sono previsti dalla legge sul federalismo fiscale (42/2009). Il problema è che non sono ancora stati definiti tutti. Vengono chiamati costi e fabbisogni standard delle prestazioni: questi avrebbero la funzione di determinare le prestazioni minime garantite su tutto il territorio nazionale in modo uguale da fornire ai cittadini al costo delle Regioni più efficienti. In tal modo, lo Stato darebbe alle Regioni più povere solo il minimo e tutte le spese ulteriori date dalle inefficienze dovrebbero essere pagate dalle tasse dei cittadini che hanno eletto un governo regionale inefficiente. Questo comunque entro certi limiti: qualora i costi si rivelassero eccessivamente superiori, lo Stato potrebbe intervenire a sanare il buco di bilancio: la responsabilità dei cittadini per l’operato dei propri rappresentanti non è totale dopotutto. Secondo l’art. 120 Cost. nel caso di mancato rispetto delle prestazioni standard, il Governo può commissariare gli enti locali e le Regioni, secondo procedure stabilite dalla legge. Quindi ha ragione: non solo è pensabile, è già così, in teoria. Sicuramente, sarebbe bene che il commissariamento avvenisse in modo molto rapido e, in un certo senso, automatico all’avverarsi di scostamenti da standard predefiniti;
3)non so se i costi siano particolarmente elevati, ma sicuramente ne va della certezza del diritto se ogni legge che passa viene impugnata davanti alla Corte.