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Politica interna

Deriva autoritaria?

“Uomo solo al comando”, “novello Mussolini”, “dittatore”: sono solo alcuni degli appellativi branditi contro Renzi, colpevole di voler approvare le riforme costituzionali ed istituzionali a maggioranza assoluta, dopo che Forza Italia si è sfilata.

Sulla minoranza del pd, composta dagli ultimi reduci di una sinistra antiquata e novecentesca, non vale nemmeno la pena di spender molte parole. Molto semplicemente, la sinistra continua a confondere leadership e autoritarismo. Per i canoni della sinistra, nessuno dei leader dei partiti occidentali potrebbe essere considerato democratico nell’esercizio della propria leadership.

E l’equivoco si ripete con Renzi, che è contemporaneamente capo del governo e  saldamente alla guida del partito, con grande disappunto della componente più di sinistra del partito. Che poi il leader del pd adotti uno stile discutibile e sostanzialmente poco rispettoso dei suoi critici e oppositori è vero, ma è un altro discorso.

La minoranza pd prima criticava la collaborazione di Berlusconi al processo di riforma, indispensabile per vararle, considerando l’indisponibilità del Movimento 5 Stelle; ora, senza il minimo senso del ridicolo, contesta la cosa opposta: cioè che le riforme vengano fatte senza Berlusconi.

Inoltre, accusare continuamente Renzi di “decisionismo” è francamente assurdo. A che serve un governo, se non a decidere? Semmai ciò che conta è la qualità dei provvedimenti implementati dall’esecutivo.

La destra berlusconiana invece al solito si occupa esclusivamente degli interessi del suo leader.

Ha votato convintamente le riforme in prima lettura, sostenendo fossero le stesse  approvate durante il secondo governo Berlusconi e poi bocciate a furor di popolo nel referendum del 2006. Dopo lo sgarbo di Renzi di escludere Berlusconi dalla scelta del presidente della Repubblica, il leader di Forza Italia ha deciso, in vista delle elezioni regionali, di mettersi a fare opposizione per davvero, e quindi ora le rinnega (senza che nel frattempo siano intervenute modifiche sostanziali).

Che Berlusconi non fosse un interlocutore per nulla affidabile lo ha sempre dimostrato in questi 20 anni (chiedere a D’Alema o Monti). Renzi lo sapeva, ma ha deciso di correre il rischio, potendolo fare da una posizione di forza.

La riforma istituzionale (e costituzionale) del governo non produrrà una torsione democratica come paventano le opposizioni; in ogni caso molto probabilmente sarà il popolo sovrano mediante referendum confermativo a pronunciarsi sulla loro bontà.

Vediamo brevemente le riforme in discussione.

L’intento dichiarato della riforma del senato è quello di diminuire il numero dei deputati attraverso la trasformazione del senato in una sorta di inutile Camera delle regioni e dei comuni, con limitati poteri legislativi. I componenti del nuovo senato saranno prevalentemente esponenti dei consigli regionali e in misura minore sindaci. Un’idea deleteria, dato che le regioni in Italia sono diventati centri di spesa incontrollata e spesso fonte di corruzione e dissipazione delle risorse pubbliche. Sindaci e consiglieri regionali si riuniranno saltuariamente, essendo già impegnati nei loro incarichi di amministratori.

L’abolizione del senato porterà all’abrogazione del principio cardine del nostro sistema parlamentare, quello del bicameralismo paritario (due camere dotate di eguali funzioni e poteri), un’anomalia assoluta a livello europeo. Da anni di discuteva sulle necessità di eliminarlo, senza mai addivenire a una soluzione. Il bicameralismo perfetto poteva essere superato in tre modi: o mantenendo il senato elettivo, diversificando ruolo e funzioni delle due camere e riservando solo alla camera il voto di fiducia (più complicato); o attuando il monocameralismo – da sempre la soluzione preferita della sinistra comunista -, e dunque abrogando la camera alta (molto più semplice e sensato); o come ha deciso di fare il governo, che a me pare il modo peggiore di risolvere il problema.

Va considerato che un sistema parlamentare monocamerale non sarebbe affatto una soluzione stravagante o dannosa: la maggior parte delle assemblee legislative vigenti (circa il 60%) sono caratterizzate da una sola camera.

Il progetto di riforma costituzionale prevede la modifica della sciagurata riforma del titolo quinto, imposta a colpi di maggioranza dalla sinistra nel 2001, riallocando allo Stato centrale competenze che oggi sono in capo alle regioni. Bisogna constatare come la sinistra con quasi 15 anni di ritardo si ravveda dei propri errori. In questo caso, meglio tardi che mai.

L’insipienza della sinistra del pd si manifesta anche nella discussione parlamentare sulla legge elettorale, che è una legge ordinaria, ma è strettamente legata alla riforma del senato.

Come ho sostenuto in un articolo recente, l’Italicum è molto migliorato rispetto alla proposta originaria. Garantisce un giusto compromesso tra governabilità (di cui l’italia ha urgente bisogno) e rappresentanza (garantita da una soglia di sbarramento molto bassa). Il problema capitale rimane la modalità di elezione dei parlamentari. La sinistra dei Bersani e Fassina, che riteneva a ragione le preferenze il male assoluto, invece di lottare per i collegi uninominali che sarebbero la soluzione migliore, si intesta una battaglia politica per ottenere – pensate un po’! – un rapporto del 40% di eletti con lista bloccata e 60% con le preferenze. Serve al paese? No, è funzionale unicamente alla loro rielezione.

Naturalmente, l’equilibrio dei poteri, principio su cui si fondano le moderne liberaldemocrazie, va preservato (e non sembra esattamente la maggior preoccupazione di Renzi), ma non saranno queste revisioni dell’assetto istituzionale né le modifiche al sistema politico generate dalla legge elettorale ad alterarlo.

La legge elettorale unita alle riforme istituzionali decreterà in maniera indiretta il passaggio – finora incompiuto – da un sistema fondato sulla supremazia del parlamento e su governi deboli, inefficienti, di breve durata a un sistema compiutamente maggioritario, con esecutivi quasi sicuramente monopartitici più forti, stabili e efficienti, perché non più soggetti a maggioranze periclitanti e alla necessità di estenuanti contrattazioni per superare i veti all’interno delle coalizioni. Non sarà il premierato inglese o il cancellierato tedesco, ma è comunque di gran lunga preferibile alla situazione attuale.

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