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Speaker's Corner

Teoria del complotto: perché sentiamo il bisogno di cercare cospirazioni ovunque

«Quando la gente smette di credere in Dio, non è vero che non crede più in niente: comincia a credere a tutto»
(G. K. Chesterton)

Quello di Salvini e della Meloni non è stato, o non è stato soltanto, il solito gesto polemico da opposizione rozza. No, è stato qualcosa di più. Il gesto di Salvini e della Meloni è stato quello di catturare un bisogno diffuso, un bisogno che nutriamo di fronte alla complessità.

Quando tentiamo di semplificare la realtà, di ridurla a storiella, fatta di pochi e banali nessi casuali, di piccole spiegazioni intuitive che, guarda caso, si ricongiungono tutte tra di loro; quando facciamo questo stiamo esprimendo un bisogno di rassicurazione, stiamo chiedendo alla razionalità di consolarci e di aiutarci a maneggiare una complessità che non si sottomette, che non si lascia ricondurre a uno.

Di fronte a una realtà epocale come quella evocata dal Covid-19, abbiamo bisogno di certezze, abbiamo bisogno che qualcuno ci indichi dei colpevoli, ci dica come stanno le cose, e ne abbiamo bisogno adesso, non poi. Non tutti hanno la pazienza di aspettare, non tutti hanno la forza di attendere delle spiegazioni esaustive, perciò è inutile mettersi lì a smontare i complotti: chi li formula non vuole essere convinto, non vuole risposte scientifiche. Vuole solo essere rassicurato.

La complessità, in fondo, non è qualcosa che si capisce. La complessità è qualcosa che ‘si sente’. È quella sensazione di interdizione che proviamo davanti a una materia ingestibile, quel sentimento di indecisione che ci fa desistere dal dare risposte semplici, immediate. Noi ‘sentiamo’ che i fattori in gioco sono molteplici, ‘sentiamo’ che il problema mette in relazione livelli diversi, che non c’è una spiegazione unicausale. Sentiamo tutto questo, ma non lo sappiamo; prova ne è il fatto che se tentiamo di articolarlo in un discorso dotato di senso falliamo miseramente. E a quel punto non resta che provare a costruire una risposta digeribile, il complotto per l’appunto.

Il complotto, in un certo senso, è una forma metaforica di pacca sulla spalla: ci mette a nostro agio, ci fa sentire meglio e forse ci dà anche la sensazione di aver capito qualcosa. Non è importante che sia vero, non è importante che stia in piedi da un punto di vista logico: l’importante è che ci sia, che riempia quel vuoto insostenibile. Come ci insegnò Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault”, il vero segreto è soltanto il segreto vuoto, un segreto senza contenuto.

«Un complotto —scrive Eco— , se complotto dev’essere, è segreto. Ci deve essere un segreto conoscendo il quale noi non saremmo più frustrati, perché o sarebbe il segreto che ci porta alla salvezza o il conoscere il segreto si identificherebbe con la salvezza. Esiste un segreto così luminoso? Certo, a patto di non conoscerlo mai». Una volta svelato, infatti, non potrebbe che deluderci. I complotti di questo tipo non si svelano. I complotti di questo tipo si istituiscono. Siamo noi stessi ad architettarli, perché siamo noi stessi ad averne bisogno.

Questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che persino una (presunta) società secolarizzata come la nostra, che finge di fare a meno delle divinità per mostrarsi imperturbabile, è ancora fragile e insicura.

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