È uno dei politici più in vista e in ascesa di questo mestissimo periodo politico. Stiamo parlando di Carlo Calenda.
Fin dal suo esordio, è stato accompagnato da un equivoco di fondo – che io vorrei qui dissipare – relativamente alla sua identità politica liberale.
Ebbene, Calenda è tutto fuorché liberale; riformista, liberal, socialista, socialdemocratico, ma non liberale né tantomeno liberista. Come ha scritto Alberto Mingardi, se uno non lo è, non abbisogna di fregiarsi del titolo di liberale.
Lo si evince bene dalla lettura del suo libro, Orizzonti Selvaggi, un vero e proprio manifesto politico, che al fondo non è che una dissertazione polemica contro quelli che lui definisce ‘liberisti dogmatici’. Intendiamoci: Calenda ha ragione da vendere riguardo all’integralismo di taluni liberisti – in particolare, a parere di chi scrive, sui temi del lavoro o del welfare: come ad esempio, precariato (basti pensare alla difesa accanita dei voucher), ineguaglianze, contrasto alla povertà ecc -, sennonché sopravvalutata enormemente il peso e l’influenza culturale che uno sparuto numero di intellettuali liberisti esercita nel nostro Paese, alieno a qualsiasi forma di liberismo.
Del libro mi hanno colpito in particolare due aspetti, su cui discordo radicalmente: l’idea che si debbano salvare i posti di lavoro di aziende in procinto di fallire; e la sua concezione di dumping sociale.
Veniamo al primo punto, quello per cui sia compito dello Stato salvaguardare i lavoratori che rischiano di perdere il posto di lavoro: si tratta di una tesi anacronistica e sbagliata in nuce.
Anacronistica, perché il modello di mercato del lavoro cui tendere – e a cui si ispirava tra l’altro, con 20 anni di ritardo, il cosiddetto jobs act -, è quello scandinavo della flexsecurity (teorizzata per anni da Ichino e Boeri), che contempera maggior flessibilità in cambio di più tutele al lavoratore. In un modello siffatto, a dover essere salvaguardato non è il posto di lavoro, ma il lavoratore disoccupato non solo tramite sussidi di disoccupazione e politiche attive volte alla riqualificazione e il reinserimento del lavoratore nel mondo del lavoro ma anche mediante politiche di welfare molto generose (redditito minimo, sussidi di disoccupazione, contrattazione decentrata ecc).
Sbagliata, perché, ammesso e non concesso che sia compito dello stato salvare aziende decotte per tutelare i lavoratori dai fallimenti di mercato, così facendo si finisce unicamente per privilegiare coloro che appartengono ad aziende con una maggiore visibilità mediatica e politica (vedi Alitalia, Ilva, Sulcis, Radio Padania), a discapito di quei lavoratori che ogni giorno perdono il lavoro senza poter godere di un simile trattamento di favore.
L’intento di Calenda sarà anche umanamente ammirevole, giacché è indubbio che perdere il lavoro in genere costituisce un esperienza traumatica (specie per un over 50), ma il risultato è intollerabilmente iniquo.
Passiamo alla questione del dumping. Sembrerebbe che, per lui, qualunque Stato abbia una tassazione sulle imprese e un costo del lavoro più basso del nostro stia facendo dumping (Calenda accomuna i due concetti poiché, nella sua logica, entrambi rappresenterebbero una forma surrettizzia di concorrenza sleale). Qual è la sua ricetta? Quella propugnata a ogni piè sospinto dai socialisti europei, ovvero la solita, vieta armonizzazione fiscale (naturalmente livellata verso l’alto). Mai che a un politico di sinistra passi per la mente che allo scopo di arginare le delocalizzazioni e attirare investimenti stranieri si debbono creare condizioni propizie per le imprese, sia dal punto vista economico che burocratico-giuridico, ridurre la pressione fiscale che grava su di esse, aumentare la concorrenza, favorire il dispiegarsi del libero mercato, eliminare i sussidi statali!
Il libro glissa su questo argomento, ma Calenda a più riprese, ad esempio su Twitter, si è detto favorevole a una patrimoniale – l’ennesima – finalizzata a ridurre le disuguaglianze. Dovrebbe sapere che una proposta simile è difficilmente praticabile: finirebbe unicamente col colpire non certo i ricchi ma quel ceto medio già martoriato da una tassazione iniqua e insostenibile.
Mentre è invece del tutto condivisibile il passaggio del libro che enuclea la sua visione dell’immigrazione, condensata nel principio della “legittimazione delle paure”: secondo Calenda, i timori, le paure degli italiani nei confronti del fenomeno migratorio sono più che giustificate; non vanno demonizzate ma capite e affrontate. La sinistra deve quindi rifuggire l’ideologia nefasta dell’accoglienza illimitata e scriteriata, come avvenuto negli ultimi anni, per abbracciare un approccio responsabile e scevro dal lassismo al fine di governare i flussi migratori. Il contrasto all’immigrazione irregolare e alla tratta di esseri umani si accompagna alla costituzione di canali legali per favorire l’immigrazione legale (i cosiddetti corridoi umanitari). È un approccio di buon senso speculare a quello di Minniti, benché estremamente minoritario a sinistra, stolidamente considerato “di destra”. Sembrano infatti gli unici nel PD a pensarla in questo modo.
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Il suo manifesto politico, pubblicato da Il Foglio, è un sunto delle tesi espresse in Orizzonti selvaggi. Semplificando, la disamina di Calenda si può riassumere così: per arrestare la marea populista, occorre un’alleanza tra popolari, socialisti e liberali che si devono coagulare in un’unica formazione centrista; i partiti populisti rispondono, con politiche scellerate e demagogiche, a istanze collettive che hanno un loro fondamento; è necessario risolvere le storture e i guasti prodotti da una globalizzazione incontrollata i cui effetti sul ceto medio la sinistra ha troppo a lungo colpevolmente ignorato; reclama poi – e qui sta il maggiore vulnus a mio avviso – un ruolo più attivo e preponderante dello Stato in economia. Più marginale, ma nemmeno troppo come vedremo più avanti, la questione dell’utero in affitto. Nell’articolo del Foglio, Calenda argomenta la sua risoluta contrarietà.
Non ho qui il tempo di addentrarmi in una critica del suo manifesto. Altri lo hanno fatto, e meglio di quanto potrei fare io.
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A qualcuno potrà sembrare eccessivo questo mio maramaldeggiare; e probabilmente un’aporia quel che segue. Ma il periodo storico è quello che è, e di statisti non se ne intravedono all’orizzonte. Dunque, pur con le sue idee economiche vetuste e retrograde, Calenda rimane uno dei pochi politici degni di considerazione, seri e preparati di cui disponiamo al momento.
Alle europee ha ottenuto migliaia di preferenze (il candidato più votato del PD). Ha un curriculum brillante; dovesse abbandonare la carriera politica, ci metterebbe un attimo a trovare un impiego ben remunerato nel privato. Tutti i talk show, anche quelli di destra, se lo contendono per la sua facondia e una non comune vis polemica.
Il suo carattere è impulsivo, fumantino, umorale. Non c’è parlamentare, giornalista, economista, intellettuale o semplice utente con cui non si sia azzuffato su Twitter (che, salvo qualche brillante uscita, palesemente non sa adoperare). E qui tocchiamo un tasto dolente. Il suo rapporto con il partito democratico finora è stato assai tormentato, erratico, contraddistinto da un’insofferenza reciproca. Si direbbe un amore non corrisposto.
Ci è entrato mal volentieri, un giorno sì e l’altro pure balena di uscirne, specie in caso di accordo coi grillini (e su questo non si può che convenire con lui). È mal sopportato dai suoi colleghi di partito, che lo trattano con sufficienza considerandolo non una risorsa ma una specie di malmostosa mina vagante. Naufragò miseramente il suo tentativo di far riconciliare Gentiloni, Renzi e Minniti in quella famosa cena che non ha mai avuto luogo. Qualche mese addietro, in un’intervista concessa a Repubblica, ventilò l’ipotesi di costituire un partito centrista alleato del PD per recuperare i voti dei fantomatici moderati. Antonio Polito lo canzonò sul Corriere sostenendo che non si era mai visto un politico chiedere il permesso al proprio partito d’appartenenza per fondarne un altro ad esso alleato. Lui, conscio di averla combinata grossa, si affrettò a smentire tutto, ma ormai la frittata era fatta. L’uomo è fatto così… Insomma, Calenda, almeno per ora, rimane nel PD. Con un piede dentro e uno fuori. Nel frattempo ha fondato un suo movimento: Siamo Europei.
L’ex ministro dello sviluppo economico – anche se da ministro, eccetto Industria 4.0, non ha certo conseguito risultati esaltanti – ha pregi notevoli e difetti altrettanto macroscopici. Dei difetti abbiamo accennato. Più nel dettaglio: perplime la sua ormai conclamata, ancorché sincera (diamogli il beneficio dell’onestà intellettuale), svolta sinistrorsa, rispetto ai tempi in cui era in Italia Futura di Montezemolo o candidato di Scelta Civica; è, come detto sopra, un uomo caratterialmente irrequieto e irresoluto (il tempismo in politica è tutto); è infine un abile teorico politico ma un pessimo stratega: da questo punto di vista mi ricorda il Gianfranco Fini di Futuro e Libertà, caduto ingloriosamente nel – nobile – tentativo di archiviare il berlusconismo. Non condivido il suo giudizio su Renzi e la sua stagione politica. Sembra non voler accettare la realtà: Renzi è stato affossato dalla propria tracotante egolatria, da un’ambizione smodata non sorretta da alcuna capacità o competenza specifica; trattasi di un finto riformista – imbonitore preoccupato esclusivamente del consenso, che ha dissipato in breve tempo un capitale politico senza precedenti, devastando irreversibilmente quel che rimaneva della sinistra nel tentativo di scimmiottare Blair e spianando la strada ai diuturni Di Maio e Salvini.
Ma veniamo ai pregi. Calenda, oltreché provvisto di una discreta competenza tecnica, non solo ha idee chiare ma soprattutto il coraggio di manifestarle, quand’anche impopolari. Lo ricordo, ospite di Floris, infervorarsi nel prendere le difese di Elsa Fornero, insolentita dagli attacchi scomposti di Alessandro Giuli; o, nel programma condotto da Lilli Gruber, rimbeccare e tacitare Corrado Formigli su un argomento spinoso come i centri di detenzione in Libia.
Prendete l’utero in affitto. Come ci ricorda sovente Marina Terragni, la sinistra italiana è l’unica in Europa ad essere in maggioranza favorevole alla GPA, al netto delle ambiguità pelose. Trovatemi un politico progressista che abbia il coraggio di sfidare il politicamente corretto imperante a sinistra come fa lui (su questo tema non deve essergli stata estranea l’influenza della madre Cristina Comencini, femminista di lungo corso). Per le sue posizioni così nette sulla maternità surrogata, più d’uno a sinistra, e persino alcuni liberali, gli hanno rivolto strali indignati tacciandolo di essere un reazionario.
A differenza di quasi tutti gli altri, Calenda fa politica per passione, in maniera proba e moralmente disinteressata (economicamente ci ha pure rimesso), crede in quello che dice e in quello che fa (persino quando sbrocca sui social). Ce ne fossero oggi di politici di tal fatta, a prescindere dalle idee più o meno discutibili professate!
Molte critiche che gli sono piovute addosso provengono da ambienti liberali; noi ne abbiamo ospitate alcune. L’accusa che sento rivolgergli più spesso è quella di rappresentare un populismo non molto dissimile da quello leghista e grillino, sebbene espresso in una forma più edulcorata e presentabile. Mi pare francamente ingiusta ed ingenerosa. Oltretutto la sua opposizione al governo gialloverde è, al momento, l’unica davvero efficace nella cacofonia di voci inconcludenti e autoreferenziali all’interno del suo partito – a questo proposito: Il PD, come si suol dire, sarà pure “un male minore” rispetto alle aberrazioni perpetrate dai populisti de noantri, ma resta pur sempre un male…
Si può e si deve criticare Calenda nel merito, pungolarlo affinché abbandoni certe idee socialisteggianti: la resipiscenza sul prestito ponte ad Alitalia, operato da lui medesimo ai tempi del governo Renzi, forse è già un primo passo.
Il realismo politico, la consapevolezza della gravità del momento politico che stiamo vivendo (anzi subendo) dovrebbe indurci ad essere meno pretenziosi, a dismettere un certo atteggiamento sussiegoso tipico di chi ha puzza sotto il naso: in attesa di un’alternativa più spiccatamente liberista, che non sia il solito partitino d’opinione del 3%, questo offre il convento, di meglio, per ora, non c’è.
Ps: conosco già l’obiezione che qualcheduno potrebbe propinarmi. Ma, a mio parere, col velleitarismo dei radicali di più Europa – anch’essi troppo pencolanti a sinistra – non si va da nessuna parte.
2 comments
“L’intento di Calenda sarà anche umanamente ammirevole, giacché è indubbio che perdere il lavoro in genere costituisce un esperienza traumatica (specie per un over 50), ma il risultato è intollerabilmente iniquo. ”
Giusto, però mai una volta che uno di voi dicesse CONCRETAMENTE che cosa può fare un ultracinquantenne che perde il lavoro e non ne trova subito un altro. O che cosa fa, a parte generiche e astratte ‘riqualificazioni’ (e si vorrebbe sapere come e per che cosa), in attesa di un ipotetico lavoro del futuro che ancora non c’è e che, se ci sarà, chissà quando ci sarà.
Questa non è una posizione altrettanto caparbiamente, stolidamente ideologica, avulsa dalla realtà?
Poi, naturalmente, queste prediche vengono sempre o da ragazzetti saputelli o da gente inchiodata alla propria poltrona con redditi ben superiori alla media.
Ho votato Calenda alle europee, pur condividendo al 100% quanto affermato nell’articolo. Se non si vede l’ottimo, si sceglie il meno peggio o non si va a votare lasciando scegliere gli altri, non sempre per il meglio. Sono sempre convinto che l’italia dovrebbe darsi un Progetto di Sviluppo, imperniato sulle riforme (V. Cottarelli) e con il preciso obiettivo di creare un ambiente favorevole a chi investe, dall’interno e dall’estero. Apprezzo il riferimento al sistema scandinavo. Peraltro sono anche vissuto a Copenhagen. Bisogna colmare il gap di produttività dell’Italia, puntando su Merito, Concorrenza e Mercato a 360°. Ma non vedo nulla all’orizzonte atto a contrastare il populismo/sovranismo.
Theodore Levitt, MKTG professor ad Harvard (e non più vivo), scriveva che un’impresa che va in crisi lo deve in genere a mismanagement (Olivetti non ha colto la necessità di passare dalla micromeccanica all’elettronica; Greyhound non doveva occuparsi solo di bus ma di trasporto persone, allargando il suo business fino all’aereo, ecc.). Così la classe politica ante 4/3/2018 a mio avviso si è scavata la fossa da sola non volendo o piotendo varare le riforme necessarie allo sviluppo.
Ora non vedo leader nuovi e progetti efficacemente alternativi sopratutto a Salvini, arrivato nei sondaggi SWG al 38%. Speravo anch’io di più in +Europa ma pare non si rendano conto del problema rimanendo chiusi, rivolti al passato e, malgrado la potenzialità che potevano avere dall’alleanza laici/cattolici -V. Tabacci – forse rimangiono una riedizione del Parito radicale, del quale condivido peraltro le istanze di difesa dei diritti umani ma rimane limitato ad un piccolo segmento elettorale.