Gli argomenti più seri e scientificamente interessanti a favore dello scambio libero con la Cina sono due. Uno di natura piuttosto economica, che si riferisce alla nozione di vantaggi comparati, e uno di natura prettamente politica, che si riferisce al processo di democratizzazione. In questo articolo intendo esaminare brevemente questi argomenti e la loro validità secondo i loro stessi fondamenti teorici, qualcosa che, forse stranamente, risulta che ancora non sia stato fatto né a livello scientifico né ovviamente giornalistico. Non parlerò invece degli argomenti contrari al commercio libero con la Cina che sono già di principio favorevoli al protezionismo, o ragionano più in termini strategici che economici.
Secondo la tesi della scuola economica neoclassica il commercio libero è sempre benefico per tutte le parti coinvolte. Il riferimento di base è il classico libro di David Ricardo «On the Principles of Political Economy and Taxation», pubblicato nel 1817, dove il grande economista britannico introdusse la nozione di vantaggi comparati, da allora al centro del dibattito politico ed economico internazionale, perfezionando la nozione di vantaggi assoluti già presentata da Adam Smith quattro decenni prima.
La teoria dei vantaggi comparati constata che il commercio libero spinge i paesi a specializzarsi nelle produzioni e attività in cui loro sono avvantaggiati rispetto ad altri paesi, cioè sono più bravi a praticarle, sia per ragioni oggettive come il clima e la posizione geografica, sia per ragioni culturali e tradizionali. Questo processo tende a creare un equilibrio dell’economia internazionale, in cui c’è una divisione del lavoro globale, dove ognuno fa quello che sa e può fare meglio, assicurando la massima produzione con il minimo dispendio di forze e risorse. Di conseguenza il mondo nel suo complesso diventa più ricco e prospero.
I vantaggi comparati si riferiscono alle capacità, attitudini e abitudini produttive di un’economia rispetto ad altre, ossia all’interazione libera tra basi produttive diverse. L’oggetto dello scambio è il prodotto dell’attività economica di ogni società che partecipa al libero scambio, che grazie a questo processo approfondisce e migliora i suoi punti di forza e abbandona i suoi punti di debolezza.
Nel caso dell’attuale commercio libero tra Occidente e Cina, con la delocalizzazione di migliaia di imprese occidentali allo scopo di sfruttare la manodopera a costo bassissimo offerta dal regime cinese, penso che la situazione sia fondamentalmente diversa, anzi perfino antitetica. Infatti, essa finisce nel consistere non in uno scambio tra sovrappiù delle rispettive produzioni interne, come succede nel modello di Ricardo, bensì in un trasferimento di una parte del processo produttivo interno occidentale verso un ambito caratterizzato da un’attività produttiva completamente diversa dalla propria. Ovvero, mentre ad esempio i prodotti di alta tecnologia sono frutto dell’attività economica e sociale occidentale, spesso vengono effettivamente prodotti dall’attività lavorativa di un’economia che non ha sviluppato queste capacità. Ossia non si tratta di due economie che interagiscono, bensì di una situazione in cui una frazione di un’economia isola se stessa dalle condizioni di cui veramente appartiene, e usa condizioni proprie di un’altra economia mentre vende i suoi prodotti prevalentemente non a quest’ultima, ma proprio all’economia di provenienza.
Sarebbe come se una regione degli USA venisse circondata da un muro impenetrabile, e al suo interno venissero costruite molte grandi fabbriche e poi venissero trasportati milioni di schiavi per lavorarci, mentre i prodotti continuano ad essere venduti al mercato USA e i prezzi determinati dalla domanda americana. Quindi i prezzi potrebbero essere enormemente alti rispetto al costo di produzione, assicurando dei profitti enormi, ma contemporaneamente molto minori di quelli che le imprese più piccole situate fuori dal muro potrebbero sostenere, perché sottoposte ai costi di produzione propri della manodopera americana, con risultati micidiali per esse. E se quest’immagine sembra distopica, direi che la realtà del libero scambio con la Cina dopo l’entrata di quest’ultima all’ interno dell’OMC nel 2001, sia ancora peggiore, perché l’affare coinvolge in effetti anche il regime autoritario cinese – il rifornitore di schiavi – che grazie a questo deal raffroza sempre di più la sua potenza militare.
Il secondo argomento principale a favore del commercio libero con la Cina ritiene che esso gradualmente porterà alla democratizzazione del paese, e dunque creerà migliori prospettive di collaborazione, pace e prosperità. Il ragionamento sostanzialmente segue lo schema dell’avvento della borghesia nella storia europea, ossia ci si aspetta che la crescita del paese creerà delle classi medie che rivendicheranno una sempre maggiore partecipazione politica, costringendo gradualmente il regime a democratizzarsi.
Penso che questo ragionamento sia radicalmente sbagliato, perché considera le classi «medie» solo in termini di reddito, senza considerare i loro rapporti con i mezzi di produzione. Le borghesie europee industriali e commerciali si identificavano con attività che in gran parte sfuggivano al controllo dei regimi monarchici e feudali medievali, mentre nel caso della Cina odierna è, al contrario, la classe dominante, quella che detiene il potere statale, a controllarne anche la crescita industriale e il commercio. Tutte le grandi imprese cinesi che collaborano con quelle occidentali e investono all’estero, appartengono al regime e non a una classe borghese composta da operatori economici privati; ostile alla classe dominante o trovata almeno parzialmente in concorrenza con essa, come era accaduto nell’esempio storico europeo. Le nuove classi medie cinesi solo in apparenza e con criteri strettamente consumistici possono sembrare simili a quelle occidentali, siccome dal punto di vista politico, sociale ed economico esse sono legate e subalterne al regime, da esso create e sue sostenitrici. Non si tratta di capitalisti autonomi che detengano almeno una parte considerevole della produzione e del commercio internazionale del paese, ma di impiegati dei colossi aziendali statali appartenenti al regime.
Di conseguenza il commercio «libero» con la Cina e la crescita di essa finisce non a favorire la formazione di classi economicamente autonome e politicamente antagoniste al regime, che lo spingeranno verso la democratizzazione, bensì a rafforzare proprio la presa di quest’ultimo sulla società cinese. Si tratta dunque di una condizione simile non certo a quella dell’Europa proto-capitalistica, dove fu la borghesia a guidare la crescita economica e infine a conquistare il potere politico ribaltando le classi feudali, bensì a quella del Giappone dopo la riforma Meiji del 1867, ai primordi dell’ascesa del militarismo ed espansionismo nipponico.
Dunque non ci sarebbe niente di strano nel fatto che il governo nuovo della grande democrazia liberale statunitense dichiari di aver l’intenzione di fermare lo scambio libero con la dittatura comunista cinese, mentre invece dovrebbe destare perplessità il fatto che per tanti anni i presunti esponenti della democrazia, del liberismo e anche della sinistra occidentale lo hanno accanitamente promosso e difeso.
4 comments
Articolo in linea con le tesi illiberali di Trump Le Pen Salvino Grillo. Noto che Immoderati non si dissocia.
Argomentero’ il mio giudizio dopo che l’autore avrà letto il libro del grande economista liberale e premio Nobel Coase sul capitalismo in Cina o anche qualsiasi articolo au globalizzazione ed economia mondiale su noisefromamerika
Io condivido in buona misura il tuo articolo, Sotirios, e sono convinto da un bel pezzo che il rapporto economico con la Cina sia una distorsione del libero scambio immaginato dalle teorie liberiste classiche, fondate su un mondo più virtuale che reale, collocate nel loro tempo, che è molto diverso da questo.
Le teorie servono come punto di riferimento per le analisi, non come dogmi religiosi, ideologie in cui cercare di costringere la realtà.
Inoltre non tengono conto dei fattori culturali ed umani : pensate nel mondo occidentale, per il mondo occidentale, oggi pretendiamo di collocarle in un contesto globale e per popoli profondamente diversi da quello occidentale.
Con questo voglio anche rispondere al commento di Fabrizio Bercelli.
La stella polare liberale deve restare tale, ma noi non siamo astronauti in viaggio, bensì cittadini del pianeta. Perciò, nessuna interruzione dei rapporti con la Cina, ma un serio ridimensionamento dei rapporti di scambio SI.
Segnalo che sulla pagina facebook di Michele Boldrin questo articolo, menzionato da me, è stato commentato dal prof. Boldrin e da altri: vedi la discussione iniziata da Boldrin il 24 febbraio alle ore 17:02.