La vita è un’avventura con inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti dal caso
Roberto Gervaso – morto ieri, dopo una lunga malattia, ad 82 anni – era un giornalista atipico: apparteneva a quella genia di grandi giornalisti “di destra” che hanno fatto la storia di questo mestiere, lasciando il segno nel 900.
Infaticabile e mirabile scrittore, nel corso di una lunga carriera iniziata negli anni 60, ha composto più di 25.000 aforismi e pubblicato una quarantina di libri (sopratutto biografie di personaggi storici e raccolte di interviste, genere in cui eccelleva).
La sua carriera inizia al Corriere della Sera, sotto l’egida di Montanelli, che gli fa da mentore. Una storia straordinaria: mentre è dal barbiere legge un corsivo di Montanelli e ne rimane folgorato: scrive al giornalista toscano, che lo riceve e, poco tempo dopo, lo fa assumere al Corriere della Sera sotto la direzione di Missiroli.
Si occupa di cronaca nera, nonostante le ricorrenti, terribili depressioni – malattia che aveva in comune proprio con Montanelli – di cui era afflitto (che ha raccontato diffusamente nel libroHo ucciso il cane nero). Insieme a Montanelli ha scritto, oltre a libri pregevoli come Italiani pecore anarchiche, i primi sei volumi della Storia d’Italia. Come nel caso di Cervi – che subentrerà al suo posto – il coautore scriveva il tutto e Montanelli si limitava a rileggere, limare e apporre la sua firma. Un capitolo del libro, quello su Alboino, – svela in “Ho ucciso il cane nero” – fu costretto a riscriverlo 14 volte finché non fu perfetto. “Ci spartimmo i diritti d’autore al 50%, quando al massimo avrei dovuto avere il 15. Abbiamo venduto più di 18 milioni di copie”, dichiarerà in seguito. I due sono così affiatati, la loro somiglianza così marcata (entrambi magri e allampanati) che si diffonde la diceria secondo cui Montanelli era in realtà suo padre.
Assai critico nei confronti della linea editoriale troppo progressista impressa da Piero Ottone al Corriere della Sera (con l’avallo della “zarina” Maria Giulia Crespi), passa a lavorare al GR2 e a Il Resto del Carlino per poi tornare al Corriere sotto la direzione di Di Bella.
Il sodalizio tra Montanelli e Gervaso si interrompe bruscamente nell’81 allorché il suo nome compare nella lista degli affiliati alla loggia massonica di Licio Gelli; fu lui, tra l’altro, a far incontrare Berlusconi e Gelli. La sua versione dei fatti è che si era iscritto alla P2 per tre ragioni: strappare un’intervista a Gelli; farsi un’idea più precisa sulla P2; scrivere un libro sulla massoneria (libro che poi pubblicò, molti anni dopo, intitolandolo I fratelli maledetti). Probabilmente lo fece per un misto di ingenua curiosità, di incauta ambizione e vanità: “Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede.”, dichiarò in un’intervista a Luigi Mascheroni.
Esploso lo scandalo, venne subitaneamente allontanato dal Corriere della Sera, fu ostracizzato da quasi tutti i conoscenti e amici e ripiombò nella più cupa depressione.
Ma, se compromise irremediabilmente il rapporto personale con Montanelli (“per più di 10 anni non ci parlammo né ci vedemmo”), questo incidente non fu tuttavia esiziale per la sua carriera: seguiterà a lavorare nei quotidiani (prima a Il Giorno, Il Tempo poi Il Giornale, Il Messaggero, Il Mattino); a condurre programmi televisivi di grande successo (le interviste a Domenica in ed in alcune trasmissioni su Rete 4); a sfornare libri e interviste a personaggi famosi, come la vedova di Martin Luther King (“maleducata, insolente, razzista. Mi ha tenuto le spalle per tutto il tempo”), Borges (“era una cornucopia di aneddoti, una miniera di battute, un archivio. Non c’era autore, antico o moderno, che non avesse letto in lingua originale) a Simenon, che lui idolatrava – da indefesso libertino qual era – per aver giaciuto con 9000 donne.
Il suo modo di intervistare ha fatto scuola, ed è stato sovente contrapposto a quello di Oriana Fallaci. Tanto erano prolisse ed egoriferite le interviste della Fallaci (con cui ebbe diverse sfuriate) quanto brevi, concise e brillanti le sue. I celebri aforismi, invece, erano corrosivi e icastici allo stesso tempo. Delle perle come: “per essere giudicati intelligenti dai cretini basta non farsi capire”; “i giornalisti scrivono con i piedi. Sudati.”; oppure “Finché Roma era un bordello con una maitresse, era possibile viverci. Oggi non c’è una maitresse e Roma è diventata una porcilaia, una discarica a cielo aperto.”
Gervaso era dotato di un’eleganza quasi da dandy con i suoi immancabili papillon e i cappelli colorati; il sense of humor, la levità di chi non si prende mai troppo sul serio, l’anticonformismo disinibito, lo rendevano un personaggio unico nel suo genere.
La figlia Veronica, giornalista al TG5, su Twitter lo ha ricordato così: “Sei stato il più grande, colto e ironico scrittore che abbia mai conosciuto. E io ho avuto la fortuna di essere tua figlia. Sono sicura che racconterai i tuoi splendidi aforismi anche lassù. Io ti porterò sempre con me. Addio”.