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Giustizia

Riformare il CSM: più merito, meno correnti

Ecco la prima grande proposta di riforma costituzionale: la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Qui trovate la premessa a questo e agli articoli che verranno “Per riformare la giustizia occorre riformare la Costituzione”.

Pars destruens

Da più parti si è rilevato come il Consiglio Superiore della Magistratura sia ripartito fra veri e propri gruppi di potere organizzati. L’autorevole magistrato Stefano Schirò, presidente di Magistratura Indipendente ha ammesso sconsolatamente che “il CSM è in balia delle correnti”, invitando i colleghi a riconoscere uno status dal quale la magistratura dovrebbe liberarsi. Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli, nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, accusò alcuni magistrati di “interventi mediatici che fanno apparire chi li pronuncia come il privilegiato esclusivo depositario della verità”, denunciando ulteriormente “il persistente e sempre più invadente condizionamento correntizio da parte del CSM, che ha contribuito a compromettere l’autorità e l’autonomia della funzione giurisdizionale”. Giovanni Falcone, in un’intervista a “la Repubblica” nel 1990 disse: “Il CSM è diventato, anziché organo di autogoverno e garante dell’autonomia della magistratura, una struttura da cui il magistrato si deve guardare… (con) le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica”. Giuliano Pisapia, già presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha descritto il CSM come “prigioniero dello strapotere delle correnti”, sottolineando come “è l’appartenenza a questa o quella [corrente] a determinare l’assegnazione dei posti e le promozioni; le stesse inchieste e sanzioni disciplinari sono condizionate dal gioco dei favori reciproci”. Sinistramente suggestivo osservare la correlazione fra la denuncia dello stimato procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, “il CSM sta alle correnti associative come il Parlamento della prima repubblica stava ai partiti”, e quella di Angelino Alfano (allora ministro di un governo in perenne conflitto con la magistratura), che parlò di “veri e propri partiti con veri e propri leader a sedere in un vero e proprio parlamentino”.

Il carattere allarmante di queste dichiarazioni, provenienti da fonti fra le più disparate, rende evidente come, nonostante le modifiche del sistema elettorale del Consiglio superiore, che hanno eliminato il voto per liste contrapposte, il potere dei gruppi organizzati all’interno della magistratura (le famigerate “correnti”) sia rimasto immutato, se non ulteriormente peggiorato. La più grave conseguenza di questo sistema è la nefasta possibilità che le carriere dei magistrati, come rilevato precedentemente, siano in qualche modo condizionate dal gradimento delle diverse fazioni, a discapito di logiche meritocratiche. Un fenomeno che già in Assemblea costituente Orazio Condirelli, Meuccio Ruini e altri avevano stigmatizzato con l’espressione di “elettoralismo”. Se da un lato è ovunque riconosciuta e richiamata l’assoluta necessità dell’indipendenza dei giudici e dei PM da ogni interferenza esterna, non si nota la stessa attenzione nei confronti della cosiddetta “autonomia interna” del magistrato, quella cioè rispetto al proprio organismo associativo.

L’articolo 105 della Costituzione è chiaro e tassativo: al Consiglio Superiore della Magistratura spettano, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. È a nostro avviso inappropriata la generale definizione del CSM quale “organo di autogoverno della magistratura”; non lo affermano né l’articolo 104 né l’articolo 105 della Costituzione.  Inoltre non potrebbe essere considerato tale, dato che è presieduto dal Presidente della Repubblica, che il Vicepresidente non può essere un magistrato e che ne fanno parte i membri laici nominati dal Parlamento in seduta comune. Per queste ragioni sarebbe più corretto parlare di organo di “governo della magistratura”, senza dimenticare le sue funzioni di garanzia dei magistrati e dei cittadini. È evidente che a fare le spese di una feroce lottizzazione correntizia, di regolamenti di conti fra magistrati, che sfociano in una sorta di “giustizia domestica”, siano in primo luogo i cittadini. Piero Calamandrei, portando il saluto dell’avvocatura al congresso dell’ANM, criticò “la carriera automatica, la mancanza di valutazioni periodiche dell’attività svolta, la mancanza di preparazione e di equilibrio” quali mali endemici della magistratura, in quanto “non presidio all’indipendenza, ma premio ai pigri e agli inetti, e cioè ai peggiori”. Ecco perché ci sembra importante prendere in analisi una riforma che, fra l’altro, istituisca un’autonoma sezione disciplinare. Se non bastasse il buonsenso a suggerire la scarsa efficienza di un sistema in cui i controllori sono eletti dai controllati, sarebbe opportuno ricordare che oggi solo il tre per cento dei magistrati incorre in sanzioni, peraltro generalmente blande (ammonizioni, censure, spostamenti, paradossalmente promozioni: non sussistono sanzioni su stipendi o carriere).

Per concludere, un’ulteriore considerazione. Citando ancora Carlo Nordio: “Una concentrazione di potere come quella dei magistrati sulla vita delle persone e dello Stato, svincolata da effettive responsabilità, appare intollerabile. […] Questa è un’anomalia che dovrebbe essere discussa e risolta con serenità e raziocinio. […] È inutile rispondere che esiste il controllo delle leggi, dei ricorsi e del CSM: siamo abbastanza smaliziati e maturi per capire che non si parla di controlli formali ma sostanziali”.

Ci auguriamo che le prossime proposte possano rispondere a quella serenità e quel raziocinio di cui parlava Nordio, per la corretta risoluzione di anomalie difficilmente giustificabili dal buonsenso.

Pars construens

Il nostro progetto di riforma modifica profondamente l’assetto degli organismi di governo della magistratura. La scelta dei Costituenti di prevedere un unico CSM, al quale attribuire anche la funzione disciplinare, era coerente con una concezione che riconosceva al Pubblico Ministero una natura affine a quella del giudice: proprio questa costituisce una grave minaccia all’attuazione del processo accusatorio. Sarebbe in effetti più corretto parlare, per quanto ci riguarda, di riforma dei CSM, in quanto la separazione delle carriere, accennata nella premessa e specificamente discussa al punto III, comporterebbe l’inevitabile sdoppiamento del Consiglio Superiore fra magistratura giudicante e magistratura requirente. L’attuale CSM è composto da ventisette membri, dei quali tre di diritto (il Presidente della Repubblica, che lo presiede, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione), sedici eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie e otto eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio. La riforma approvata dal centrodestra nel 2002 ridusse da trenta a ventiquattro il numero dei componenti eletti del Consiglio, nonostante l’introduzione della figura del giudice di Pace e il raddoppio dei magistrati (togati, onorari, aggregati). Questi ultimi elementi inducono molti a ritenere opportuna un’estensione del numero e della provenienza professionale. Soggettivamente, nonostante l’indubbia coerenza della posizione appena esposta, non avvertiamo la necessità di sostenerla, in quanto a nostro avviso non andrebbe a risolvere le problematiche realmente deleterie del Consiglio. Quali i vantaggi di una formazione di nuove liste di eligendi contigue, ovvero amiche, di altrettante forze politiche?

Le decisioni del CSM appaiono, in linea generale, come il riflesso delle volontà dei vertici di correnti associative e relative segreterie. Come si è sopra ricordato in altra forma, i consiglieri sono, per un terzo, di nomina parlamentare (che tra l’altro rende, inevitabilmente, ancor più manifesta l’appartenenza politica): il loro peso e il loro numero sono eccessivamente minoritari rispetto alla componente togata. Un nuovo bilanciamento di questi delicati equilibri sembra ineludibile nella discussione sullo sdoppiamento del Consiglio. A presiedere i due CSM dovrebbe essere, non solo virtualmente, il Capo dello Stato, la cui posizione super partes di raccordo tra i poteri dello Stato garantisca il necessario collegamento della magistratura con le istanze esterne. Il primo presidente della Corte di cassazione è membro di diritto del CSM giudicante, mentre il procuratore generale della Corte di cassazione è membro di diritto del CSM requirente. I componenti di entrambi i nuovi Consigli sono nominati per metà dal Parlamento in seduta comune, e per metà, rispettivamente, dagli appartenenti all’ordine dei giudici e dai pubblici ministeri. La presenza dei due membri di diritto (primo presidente della Corte di cassazione e procuratore generale) garantisce la prevalenza numerica della componente togata. Inoltre, la componente togata di ciascun Consiglio dovrebbe essere nominata, rispettivamente, dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero previo sorteggio degli eleggibili. Questo meccanismo è il più idoneo a contrastare il fenomeno della “correntocrazia” e a rafforzare quindi l’autonomia interna dei magistrati. Percorribile l’ipotesi secondo la quale possano essere sorteggiati fra gli eleggibili solo soggetti di garantita esperienza: si pensi a un albo comprensivo dei magistrati già valutati tre volte.

La cognizione delle questioni disciplinari è devoluta a un’apposita sezione disciplinare, composta da cinque membri effettivi; il vicepresidente del Consiglio è il presidente della sezione, che è altresì formata da un componente eletto tra quelli designati dal parlamento e da quattro componenti eletti tra quelli togati. Il nostro disegno di legge costituzionale prevederebbe la creazione (dopo i due nuovi CSM) di una terza istituzione: la Corte di disciplina. Separando la funzione disciplinare da quella amministrativa, si escluderebbero rischiose interferenze, evitando che chi è chiamato a valutare, a vario titolo, le carriere dei magistrati (professionalità, conferimento di incarichi dirigenziali, incompatibilità non derivanti da illeciti disciplinari) ne possa giudicare anche i profili disciplinari. Superando, finalmente, anche quella “giustizia domestica” testimoniata a più riprese, logicamente ed eticamente inaccettabile.

Infine, emerge la necessità di escludere che i Consigli superiori possano esercitare ruoli impropri attraverso esternazioni contigue a esercizi politici. Ciò si traduce nella chiara indicazione delle attribuzioni proprie di tali organi, così da fissare limiti certi all’autogoverno della magistratura. Si tratta di un principio di ascendenza liberale, riassunto in questo modo da Alexis de Tocqueville, nel suo La democrazia in America: “Quando un giudice, a proposito di un processo, si pronuncia su una legge relativa a questo processo, estende il cerchio delle sue attribuzioni, ma non ne esce, perché ha voluto in questo modo giudicare della legge, per arrivare a giudicare il processo. Quando invece si pronuncia su una legge, senza prender le mosse da un processo, egli esce completamente da quella sfera, e penetra nel potere legislativo”. La democrazia in Italia, due secoli dopo Tocqueville, soffre di un’oggettiva lacuna della nostra Costituzione (in particolare dell’Art. 105) che, non indicando limiti delle attività del CSM, ha consentito l’indirizzo di funzioni talvolta in contrasto con altri poteri dello Stato. Nutriamo molte speranze nei due secoli a venire.

 

 

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