Questo contributo si propone come il primo di una più ampia riflessione (di cui non mi farò solo io carico, ovviamente) sulla necessità di ripensare radicalmente il sistema della formazione universitaria e professionale.
La scelta di partire da Giurisprudenza nasce essenzialmente da due motivi.
In primo luogo, un motivo strettamente personale: sono io stesso un giurista, quindi adotto un punto di vista interno, facendo leva sulla mia esperienza di studente, dottore di ricerca e in ultimo anche avvocato.
In secondo luogo perché in my humble opinion molti dei problemi della giustizia (ma in generale anche del modo di legiferare) risentono di un certo clima culturale, di un certo modo di concepire il diritto. In questo senso, in un mio precedente post per esempio sostenevo che il successo della negoziazione assistita sarà determinato in buona parte anche da un cambio di mentalità degli avvocati (uscire dalla logica del dum pendet rendet, uscire dalla logica che necessariamente il contenzioso si debba risolvere nel processo). Ma si pensi anche alla legislazione italiana, al burocratese (l’anti-lingua), all’odioso modo di esprimersi così criptico e pomposo che talora noi giuristi adottiamo. Ma non è solo questo il problema, non sono soltanto questi aspetti i problemi legati alla facoltà di Giurisprudenza. Una facoltà che da sempre ha attratto numeri elevati di studenti, e non solo per il mito del magistrato di mani pulite che sicuramente ha inciso sulle scelte di alcune generazioni.
Intanto cominciamo col sfatare un mito e cioè che Giurisprudenza non significa necessariamente professione legale: avvocato, magistrato, notaio.
Partire da questa consapevolezza è estremamente importante. Non solo per la matricola, spesso confusa, che sceglie la facoltà di Giurisprudenza ma anche e soprattutto per chi si dovrà apprestare a riformare/ripensare il corso di laurea in Giurisprudenza. Bisognerà necessariamente distinguere tra una formazione base comune a tutti i giuristi e uno specifico indirizzamento per chi voglia intraprendere la professione forense. Oggi questa demarcazione netta c’è solo in parte. Mi si obietterà che esistono degli indirizzi, dei corsi caratterizzanti da scegliere nel predisporre il piano di studi. Beh non bastano, sono poca cosa in confronto a quello che realmente servirebbe.
Il problema di fondo è che la matricola di giurisprudenza entra confusa in facoltà ed esce ancor più confusa sul suo futuro professionale.
Mi si obietterà che l’università deve dare una base teorica, la formazione pratica si fa poi sul campo. E proprio rispetto a questo modello che credo si debba provare a fare un passo in avanti. Anche qui timidi correttivi sono stati introdotti: la pratica anticipata all’ultimo anno, la possibilità di qualche stage non basta. Troppo poco. Penso a un modello in cui sapere teorico e sapere pratico si fondano e interagiscono in continuazione. Perché il sapere, sganciato dal saper fare è un sapere debole.
Prima di delinearvi un’ipotesi su come si potrebbe intervenire in maniera radicale, si rende necessaria un’altra premessa (portate pazienza, ma la materia è complessa e necessita di rendere espliciti certi presupposti). La nostra tradizione giuridica è una tradizione giuridica di civil law, basata su un ruolo importante della dottrina giuridica) e su un sistema di codici (aggregato omogeneo di leggi e norme). L’idea alla base della facoltà di Giurisprudenza è che dunque i giuristi in erba comincino a farsi le ossa leggendo e interpretando codici. Bene, per carità, ma non dimentichiamoci la realtà: la realtà dei processi per chi punta al mondo delle professioni legali, la realtà dell’apparato burocratico (per gli aspiranti funzionari), la realtà commerciale (per i giursti d’azienda). Occorre pensare a un sistema sempre più integrato e orientato anche alla pratica per evitare che vi sia uno scollamento tra un’ottima preparazione teorica cui corrisponde però una pessima attitudine alla praticità che la realtà concreta (specie per chi voglia intraprendere il percorso forense) richiede. Troppo spesso giovani giuristi capiscono di aver scelto il percorso sbagliato una volta entrati nella (dura) realtà professionale attraverso il praticantato. Troppo spesso ci si fa una versione idealizzata di avvocato che non corrisponde al lavoro reale, concreto che tutti i giorni di fatto l’avvocato si trova a fare. Ma, andando oltre il mondo legale, troppo spesso ci si trova sperduti di fronte alle dinamiche dell’impresa, al mondo delle banche ecc.
Occorre dunque ripensare la facoltà e i relativi corsi di laurea abituando i giuristi sin da subito a svolgere in concreto il loro lavoro di interpreti di norme e a calare in situazioni concrete la loro attività. Senza dimenticare tuttavia che l’università è il luogo dove si fa ricerca e dove si studia per il gusto di studiare e quindi senza disdegnare materia di ampio respiro che servono a sviluppare una certa forma mentis del giurista oltre che dargli una consapevolezza della propria attività e ruolo nella società. Immagino dunque un biennio iniziale comune per tutti caratterizzato da insegnamenti comuni tra cui storia del diritto, filosofia e teoria generale, teoria dell’argomentazione, logica, informatica giuridica, oltre agli insegnamenti di natura finanziaria e l’inglese giuridico.
Dopo di che segue un triennio specializzante e modellato sul tipo di figura professionale che si vuol andare a costruire: avvocato, funzionario, giurista di impresa ecc.
Mi concentrerò in questa sede sulla specializzazione degli avvocati. Dobbiamo andare oltre il modello attuale, ripensare praticantato ed esame di stato. Una prima importante selezione deve avvenire al momento della scelta della specializzazione. Il triennio specializzante deve prevedere la frequenza di studi legali, l’osservazione dei processi dal vivo, lo studio di casi pratici. Bisogna andare oltre il modello tradizionale delle lezioni frontali. Immagino corsi di diritto nei quali agli studenti vengano dati dei fascicoli con probabili casi da risolvere, un minimo di inquadramento teorico dopodichè spetta al giurista in formazione – entro determinate tempistiche – consegnare un parere, redigere l’atto più opportuno. Penso a un modello interattivo, con simulazioni processuali e confronto con le specifiche realtà. Penso a un percorso che termini senza necessità di ulteriore pratica e ulteriore esame di stato. Deve essere l’università a certificare che un laureato in legge che abbia intrapreso il percorso forense sia effettivamente in grado di poter esercitare: quanto sia bravo poi lasciamolo decidere al mercato, ma che nel mercato possa entrarci subito dopo l’università.
Nel mentre scrivo queste considerazioni, ho da poco concluso di leggere un interessante libro di Gianrico Carofiglio, L’arte del dubbio, nel quale il magistrato ci racconta come si deve esaminare e controesaminare un teste. Nelle Law School americane è normale studiare queste cose, perché nelle università italiane no?