“Basta, non ne possiamo più, riaprite tutto!”. Un grido di dolore risuona da più parti. I commercianti stremati dalle chiusure a singhiozzo, tra spese da pagare, costi fissi e incomprimibili e la penuria di ristori e incassi, i giovani con il loro disperato bisogno di socialità, cittadini comuni ormai sfibrati da regole sempre più astruse e imposizioni vessatorie e inique.
Chi si illudeva che l’anno nuovo ci avrebbe progressivamente affrancato dall’incubo della pandemia, s’è dovuto presto ricredere. Il piano di vaccinazione procede a rilento, a dispetto della propaganda roboante imbastita da Arcuri e Conte, con il concorso di media e giornalisti corrivi. Presentato il 4 dicembre – e mai più aggiornato – esso prevede di inoculare il vaccino a 30 milioni di cittadini entro l’estate; per lo stesso periodo la Germania di Angela Merkel conta di aver immunizzato l’intera popolazione (80 milioni di persone). A questo proposito, la sordida pantomima inscenata dal governo Italiano a suon di minacce, velate allusioni, ricorsi giudiziari contro le multinazionali farmaceutiche, tutto pur distrarre l’opinione pubblica dai ritardi e da una gestione dell’operazione vaccini opaca, insufficiente e nepotista (quasi 1/3 400.000 su 1,3 milioni dei vaccini somministrati pare sia andato a persone che non fanno parte del personale sanitario!), non può che suscitare un sentimento di profonda indignazione in chiunque sia dotato di un minimo di onestà intellettuale.
Siamo sospesi, imbrigliati, in quello che con un termine tecnico si definisce plateau, con la curva dei contagi che non sale e non scende. Eppure oggi è diverso rispetto a un anno fa: la misura è colma e la preoccupazione di morire di fame prevale largamente su quella di contrarre il virus, come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere. La disoccupazione galoppa: mancano all’appello 665.000 posti di lavoro rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, le assunzioni calano a picco (- 31%), la povertà, quella vera, è in drammatico aumento come testimoniano le file chilometriche per avere un pasto gratis così come i percettori del reddito di cittadinanza; e il peggio deve ancora venire. Oggi – faceva notare lo scrittore Walter Siti su Il Domani – nessuno avrebbe l’ardire di ripetere la sciocca e auto-consolatoria filastrocca “andrà tutto bene”, come si faceva quando tutto ebbe inizio un anno orsono, con la pandemia che irruppe a sconvolgere le nostre vite.
Si era detto a più riprese che avremmo dovuto imparare a convivere con il virus. Ma questo proclama è rimasto sulla carta. Sicché oggi il cittadino medio si deve barcamenare fra una selva di dpcm incomprensibili, FAQ profuse all’impazzata che non chiariscono alcunché, arabeschi giuridici, divieti al limite del surreale – come quello, da stato Etico, di acquistare bevande e alcolici da asporto dopo le 18, onde evitare una fantomatica movida che esiste solo nei sogni più torbidi dei nostri governanti – zone che cambiano di colore con criteri tutt’altro che lineari. Ingiustizie macroscopiche: perché chi ha un attività all’interno di un centro commerciale deve essere chiuso il sabato e la domenica a differenza di tutti gli altri o dei supermercati, sempre aperti, tra i pochi settori a non aver risentito della crisi? Oppure: perché i barbieri possono rimanere sempre aperti, e gli estetisti invece no? Chi stabilisce cosa è essenziale e ciò che è voluttuario? Un codice ATECO? La volontà insindacabile del legislatore, forse il ministero della salute oppure tutto è demandato alle ubbie dei componenti del comitato tecnico scientifico, incuranti delle ragioni dell’economia? Di fatto, le zone rosse e arancioni di oggi corrispondono a un lockdown edulcorato, un pò più soft e sopportabile, ma la sostanza non cambia. Per una settimana 10 milioni di cittadini lombardi sono stati confinati nelle loro case per un errore marchiano nella raccolta dei dati imputabile perlopiù alla dabbenaggine dei dirigenti della suddetta regione. Incredibilmente qualcuno tra i virologi più blasonati, ha commentato che queste misure restrittive “male non fanno”, come se non esistesse un nesso causale tra chiusure e perdite economiche (e di posti di lavoro); o che la compressione dei nostri diritti e libertà non sia altro che un trascurabile orpello.
I lockdown, ormai è appurato, non sono risolutivi dal punto di vista epidemiologico, semmai servono unicamente a mitigare il numero dei contagi e a dare respiro al sistema sanitario. Sono invece rovinosi per la psicologia collettiva (basta vedere i casi di aumento di patologie ciclotimiche, specie fra i giovani, abuso di farmaci, violenze private, la rarefazione dei rapporti sociali che ne consegue), devastanti per l’economia, insostenibili socialmente. Andrebbero evitati ad ogni costo, con buona pace di quella schiera di virologi più oltranzisti (Ricciardi, Crisanti, Galli su tutti) che li perorano a gran voce e a spron battuto. Proprio Ricciardi, uno dei suoi più pertinaci assertori, in un paper scritto a più mani, la definiva una misura di “cieca disperazione” e sosteneva che è “difficile prevederne gli effetti sull’andamento della pandemia”; potrebbe portare “a una situazione in cui molte persone possono infettare gli altri, passando più tempo a stretto contatto con soggetti vulnerabili o anziani”.
L’Argentina viene spesso citato ad emblema fallimentare di questo modello di contrasto alla pandemia: ha attuato il lockdown più lungo al mondo, dal 20 marzo al 9 novembre. Non è servito ad abbattere i contagi (2 milioni di casi accertati, 48mila morti), l’economia è ora in ginocchio, persino peggio che da noi (la perdita di pil si attesta ad un calo dell’11,78% nel 2020). Non è la pandemia in sé dunque il problema, ma il rimedio adottato, cioè il lockdown, con tutte le sue implicazioni nefaste. Pensate al caso italiano. A cosa è servito il lockdown più rigido e lungo d’Europa se poi abbiamo allentato troppo le briglia durante l’estate dissennata del liberi tutti? Sì allora abbiamo salvato il sistema sanitario dal collasso. Ma a quale prezzo? Davvero non c’erano alternative più blande e sopportabili, ad esempio circoscrivere le chiusure alle sole regioni del nord colpite (Lombardia e Veneto) con l’obbligo di distanziamento fisico e dispositivi di protezione individuale per tutte le altre, come aveva suggerito – invano – il comitato tecnico scientifico (e come aveva fatto la Cina isolando la sola Wuhan)? Il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbiamo avvizzito un’economia già in stato afasico (ancora non avevamo recuperato i livelli di reddito pro capite antecedenti la grande recessione) e ottenuto comunque il non invidiabile primato di paese con il più alto tasso di mortalità in occidente. Noi non siamo la munifica Germania, dove i “ristori” alle aziende che chiudono temporaneamente sono tempestivi e consistenti e nessuna rischia di fallire né tantomeno gli Stati Uniti con la loro potenza di fuoco e un capitalismo dinamico in grado di riassorbire rapidamente alti livelli di disoccupazione. Per fare un esempio, secondo quanto riportano diversi quotidiani, i compensi erogati dallo stato italiano a ristoranti e bar coprono a malapena il 3% del fatturato…
Allo stesso modo, se si fosse fatta una campagna di tamponi di massa, accettato il prestito del Mes al fine di rimpannucciare il nostro sistema sanitario sconquassato dalla pandemia, messo in pratica un serio sistema di tracciamento (che fine ha fatto Immuni?), si sarebbe potuta evitare una seconda ondata pandemica con il suo ferale corollario di morti (più di 50.000) e infetti. Così facendo, quante vite avremmo potuto salvare? Quante aziende e lavoratori preservare? Confinare in casa milioni di individui è semplice; assai più difficile e gravoso programmare, investire risorse, rendere più efficiente la pubblica amministrazione. Abbiamo accettato, acquiescenti, che i nostri diritti e le nostre libertà più cogenti venissero conculcati in nome di un interesse superiore, la salute pubblica. Persino che ogni singolo aspetto della nostra vita venisse minuziosamente stabilito dal legislatore. Ma i sacrifici non sono stati compensati da un’azione pubblica altrettanto efficace da parte del governo centrale, e in subordine della gran parte delle regioni.
La crisi economica e sociale è talmente drammatica che il trade off tra tutela della salute e ragioni economiche in questo momento non può che pendere in favore delle seconde; perciò è dirimente che tutte le attività che possono essere svolte in sicurezza, senza il rischio di contagi ed evitando assembramenti, riaprano al più presto. D’altronde non si capisce perché titolari di attività che hanno speso ingenti risorse per ottemperare alle direttive anti covid non debbano poter lavorare liberamente e in sicurezza. Chi ha un’attività non chiede – solo – sussidi (comunque risibili) o indennizzi (il rinvio delle tasse, condizioni più favorevoli per i prestiti bancari); ma di poter mandare avanti ciò che con sudore, sacrifici indicibili e abnegazione hanno realizzato, in un contesto, quello italiano, estremamente avverso al rischio di impresa. Basterebbero poche regole, chiare e intellegibili da tutti. Questo si chiede al governo. E allora sì che potremmo convivere con il virus senza grossi patemi e senza isterismi. Finché la pandemia non sarà debellata mercé i vaccini, il capitalismo delle multinazionali farmaceutiche e il contributo determinante della ricerca scientifica.
I ristoratori – invero sobillati dalla destra – aperti di giorno e chiusi la sera (perché? qual è la ratio?) che decidono comunque di aprire il proprio locale per protesta; i ragazzi delle superiori che manifestano contro la Dad e vogliono poter tornare a scuola, come gli era stato promesso; chi lavora nei teatri e cinema (in questi giorni è in voga la polemica su Sanremo), che mantenendo il distanziamento sociale e limitando gli afflussi potrebbero riaprire, e invece rimangono serrati, a differenza ad esempio delle chiese – come si è lasciato scappare uno solitamente serafico come Veltroni; il cittadino-suddito che, in barba ai divieti miopi e ottusi, travalica il confine di un altro comune per andare a trovare i genitori anziani o per qualsivoglia altra insindacabile ragione; tutti loro correndo il rischio di incappare in una multa; sono le prime avvisaglie di uno smottamento delle regole anti covid e di un esasperazione sociale vieppiù crescente. Davvero può essere considerato eversivo tutto ciò? Come si fa a non solidarizzare? In poco tempo la rivolta serpeggierà in strati sempre più ampi della popolazione e diventerà una slavina. E quando sarà pacifico che nessuno rispetta più le regole, che i controlli scarseggiano, il legislatore non potrà che prenderne atto.
Quello che non è accettabile è il continuo procrastinare, le dichiarazioni vagamente rassicuranti, ma in realtà pelose e paternaliste, di politici di primo piano della maggioranza governativa per cui “tutto dipenderà da noi”, oppure alla domanda “quando avremo meno restrizioni alla nostra vita?” la risposta è sempre un laconico “speriamo presto” (che però non arriva mai).
Ogni giorno in Italia – giova ricordarlo – muoiono a causa di tumori circa 500 persone al giorno; 1000 considerando altre patologie cardiovascolari. Questo non per derubricare o sminuire la perniciosità e virulenza del virus, ma riportare le cose alla loro giusta dimensione.
Coloro che, del tutto legittimamente, temono sopra ogni cosa di essere contagiati, il lockdown possono sempre imporselo da sé, trincerandosi in casa in attesa che passi la bufera; noi altri, invece, vorremmo poter seguitare a vivere, quantomeno una parvenza di normalità.
5 comments
Quante stronzate in un solo post!
Ma chi è il coglione che ha scritto questa roba?
E poi vengono a dire che il liberismo non è una malattia mentale…
Oppure potete ammazzarvi voi ed i vostri parenti.
Non ci sono stati abbastanza morti, ed il clamoroso fallimento della strategia svedese non ha insegnato niente, a quanto pare. Andatelo a raccontare alla Corea del Sud, all’Australia ed alla Nuova Zelanda che i lockdown non servono a niente. Del resto cosa ci si può aspettare da uno che si definisce ordoliberista senza vergogna.