Qualsiasi sforzo volto a riportare il liberalismo tra i protagonisti del dibattito pubblico del Paese è apprezzabile. Con questo finiscono, per quel che ne so, i meriti del manifesto di Carlo Calenda, pubblicato sul Foglio.
Le dichiarazioni dell’ex Ministro allo Sviluppo Economico sono soprattutto un atto d’accusa nei confronti del liberalismo economico, non dissimili da quelle che fanno costantemente i nemici del liberalismo, e pertanto giustamente bollate di cripto-populismo su queste stesse pagine immoderate. Senza voler commentare riga per riga, né soffermandomi sulla sorprendente minimizzazione dei benefici della globalizzazione e l’inserimento degli stessi in uno schema di gioco a somma zero in cui gli sconfitti siamo sempre noi classe media occidentale, cerco di mettere in ordine alcune considerazioni.
Ciò che più mi preme discutere sin da subito è l’accusa secondo la quale il liberismo sarebbe divenuto ideologia, rendendosi così cieco e arido, incapace di rispondere all’oggi e di immaginare il futuro.
Intanto è bene precisare una cosa: qualsiasi sistema di pensieri, concetti e interpretazioni discretamente articolate è una ideologia. Questo, di per sé, non ne squalifica né ne nobilita alcuna. Ciò che squalifica o nobilita un’ideologia sono le considerazioni da cui essa trae origine, i valori non negoziabili che contempla, la pratica attraverso cui si sustanzia nel mondo reale e, soprattutto, il valore che dà a chi non vi aderisce.
Guardando agli ultimi due secoli circa, è facile capire perché ideologie differenti, fra cui il liberalismo, abbiano – spero non solo agli occhi di chi scrive – valori irrimediabilmente diversi.
Calenda ricorda giustamente l’origine pragmatica del liberalismo più classico: un dubbio più che una certezza; un-ismo contrario agli altri-ismi, plurale e aperto al confronto, non settario né violento contro gli “infedeli”. Il più leggero dei vessilli; la meno rigida, sicuramente, delle griglie interpretative; la più laica delle religioni ma resta pur sempre un’interpretazione dei fatti del mondo.
Terminata la pedanteria, resta il dubbio che una narrazione così critica del liberalismo internazionale e dei suoi vaghi riflessi italiani sia del tutto ipocrita, gattopardesca, tesa a strizzare l’occhio ai nemici del liberalismo. La pratica dell’autodafè, tanto amata a sinistra dopo ogni sconfitta elettorale, cristallizzata dall’evergreen la-sinistra-riparta-da, è una gran bella trappola che consiglio ai liberali di evitare.
Altra cosa che mi fa sorridere è l’accusa di estremismo, insita nella questione ideologia malvagia. Fossimo cittadini americani che vivono in New Hampshire o in Florida, fossimo Londinesi o sudditi di Sua Maestà il Principe Giovanni Adamo II di Liechtenstein, allora certamente non sarei stupito di apparire come un estremista. In un paese come l’Italia – con questo fisco, con questa burocrazia, con questa regolamentazione e con tutto il resto che sappiamo – non credevo certo di poter passare come un fondamentalista. L’immagine che mi viene in mente è quella di un Calenda preoccupato di affogare per l’acqua usata dai pompieri che spengono un incendio. Jokes beside, “There is no alternative”, per citare una donna che ha salvato un paese intero dalle fiamme del fallimento. Chiedere il taglio delle tasse, della spesa, della burocrazia, proporre liberalizzazioni e privatizzazioni, voler tenere sotto controllo il debito pubblico, oggi sono richieste di semplice buon senso, figlie del dubbio liberale, per il quale se l’Italia si trova nella condizione in cui versa, certamente, non è pensabile proseguire sulla stessa strada attendendosi miglioramenti.
Riprendendo la questione del pragmatismo e venendo alle cose più politiche del manifesto, un liberalismo pragmatico non dovrebbe guardare al centro: costruire un movimento centrista vuol dire costruire un movimento che finirà ancora una volta a sinistra. Le esperienze di Siamo Europei, di +Europa, del Nuovo Centro Destra e di Scelta Civica testimoniano questa triste dinamica, che irrimediabilmente compromette la credibilità dei suoi animatori agli occhi dei votanti.
Il bipolarismo tende a riproporsi: movimenti nuovi e terzi poli aggiornano l’offerta politica fintanto che non vengono riassorbiti da quelli pre-esistenti. Assai più rara la capacità di soppiantare, nel lungo periodo, uno dei vecchi major party.
Il rischio di un bipolarismo populista, temuto da Calenda, è un rischio reale: a sinistra la segreteria di Zingaretti sembra portare dritta a un governo con Di Battista; a destra l’idea del Governatore Toti di una Forza Italia “bastone da passeggio” di Salvini. Per scongiurare questo pericolo è necessario costruire (o ricostruire) qualcosa che sin da subito metta in chiaro con chi e a quali condizioni si è disposti a trattare. Disposizione che deve essere univoca: o si guarda al centrosinistra o si guarda al centrodestra.
Davanti a questo bivio la scelta può essere solo una e si chiama centrodestra, non l’attuale leadership leghista ma gli elettori del centrodestra, davanti ai quali si è responsabili, a cui va dimostrata chiarezza e linearità di intenti. Il liberalismo è di destra, di questo non vorrei neanche dover discutere. A chi storce il naso – e saranno comprensibilmente in molti a farlo – dico quello che in questa stagione di amministrative mi son ritrovato a dir spesso ad amici liberali, scettici della presenza leghista nelle coalizioni cittadine: vedetela come se vi entrasse uno sconosciuto in casa. Che fareste: scappereste o cerchereste di cacciarlo? Avrebbe senso lasciare casa vostra mentre cercate riparo a casa del vicino?
Di destra è tendenzialmente larga parte dell’elettorato italiano. Al netto della brutale semplificazione, gli italiani che votavano DC prima hanno finito col sostenere il centrodestra nella Seconda Repubblica. Come ha scritto Guido Vitiello ironicamente, c’è “chi è rimasto coerente tenendosi stretti non tanto i suoi principi quanto i suoi avversari”. E questo è probabilmente spiegabile attraverso tre principali fattori: a) la centralità del tema economico nel dibattito pubblico; b) la scarsa fiducia sulla competenza del centrosinistra nell’affrontare i temi economici (in altre parole il “possesso” del tema economico del centrodestra); c) la forte tendenza degli elettori a razionalizzare il proprio voto, riposizionandosi all’indomani del voto in funzione della retorica di chi hanno votato.
Allora se l’economia è il mezzo attraverso il quale sintonizzarsi con l’anima degli elettori – specie quando passerà la bolla tematica della sicurezza/immigrazione – che senso avrà provare a spiegare il libero mercato, l’importanza di uno stato leggero, di una bassa regolamentazione ai sostenitori della sinistra? L’unica convergenza possibile sarà quella con gli elettori che son sempre stati sensibili ai problemi di un fisco rapace e di una burocrazia opprimente, non certo con chi vuol fare piangere i ricchi. Viceversa sarà possibile aprire una piccola rivoluzione culturale sulle libertà civili anche nel centrodestra, senza però mai dimenticarne il loro peso sulle scelte di voto.
Costruire qualcosa di forte e credibile a destra vuol dire essere pronti per quando bisognerà raccogliere i pezzi del disastro del salvinismo: la leadership del segretario del Carroccio è ipercinetica, iperinflattiva e paurosamente spregiudicata, anche più di quella di Renzi. Quanto durerà?
Ora è necessario lavorare all’alternativa che non lasci orfani i delusi e i disillusi, che ritrovi una leadership nuova, concreta, sorretta da idee e che sappia essere – per citare Antonio Martino – conservatrice per difendere libertà già acquisite; radicale per conquistare spazi di libertà ancora negati; reazionaria per recuperare libertà smarrite; rivoluzionaria quando la conquista della libertà non lascia spazio ad alternative. Come Salvini ha saputo fare dopo il crollo del berlusconismo, così bisognerà saper fare non appena – e potrebbe non volerci molto – Salvini avrà dimostrato la sua inettitudine, quando dovrà rendere conto ai suoi elettori dell’impoverimento economico della Nazione, frutto della peggior alleanza di governo degli ultimi vent’anni almeno. Allora serviranno idee, donne e uomini che parlino alla maggioranza silenziosa, con una proposta credibile, per un’Italia più prospera, libera, creativa, sicura, aperta e accogliente. Insomma: meglio seguire le eventuali primarie di Forza Italia e la battaglia di Mara Carfagna che le sirene di Calenda.
2 comments
La guerra fredda è finita da un pezzo.
Un eventuale coalizione liberale deve stare doprattutto contro queste nuove destre, che non sono liberali ma neppure liberiste.
Un elemento liberale deve stare nel centro sinistra e carpire i voti dei moderati, quelli che soprattutto si oppongono alle bestialità 5stelle e lega prima di tutto ma anche Flli dItalia, CP e FN.
Vivo solo se ho un colletto. Già da qui la “caratura” del tizio.