Non c’è alcun valore nella vita al di fuori di quello attribuitole da chi la possiede.
L’avrei volentieri messa in conto a qualcuno questa frase, ma non ho trovato niente di analogo già scritto.
Dopo il caso di Noa Pothoven, la ragazza olandese di 17 anni che ieri ha scelto di morire, assistita da medici e parenti, in seguito a una lunga storia di depressione, anoressia e PTSD, abbiamo letto diverse pillole di verità: c’è chi dice che sarebbe servito aiutarla di più, chi addirittura di meno, chi l’avrebbe invitata a cercare la felicità in qualcos’altro e chi in se stessa. Sono davvero tante le ricette personali che avrebbero potuto salvare la vita a Noa, ma evidentemente tutte inadatte perché accomunate dallo stesso errore di fondo: non parliamo della vostra vita, ma della sua. La precisa condizione in cui versava è qualcosa di inconcepibile e la moralità della sua scelta qualcosa di ingiudicabile.
Anche per questo ancora non ci sono pubbliche dichiarazioni ufficiali sulla pratica che ha portato la diciassettenne al decesso. Può essersi trattato di eutanasia attiva volontaria o di suicidio assistito? Di eutanasia passiva? O forse semplicemente di suicidio, quando Noa si è definitivamente rifiutata di ricevere idratazione ed alimentazione? Qual è la differenza concettuale, quando qualcuno è così sicuro di voler morire?
Prima del 900 era tutto più semplice, se soffrivi di un male atroce e ti uccidevano era eutanasia, se ti uccidevi suicidio e se non avevi la forza per ucciderti morivi di stenti. Oggi l’ultima parte è più complicata, perché alimentazione ed idratazione artificiale possono divenire forzate, con le conseguenze che ne derivano. Chiedere di sospenderle è eutanasia o suicidio? Quando la volontà del paziente è responsabilmente e solidamente espressa quanto ha senso interrogarsi su questo?
Il giornale de Gelderlander, che ha per primo dato la notizia, scrive che Noa Pothoven è deceduta in un letto nel salotto della sua casa, dopo che da giorni aveva smesso di mangiare e di bere, pratica di per sé non necessariamente riconducibile ad un legale consenso eutanasico (si tratta infatti di scelte assolutamente individuali). I genitori tuttavia non risultano essere accusati di nulla per aver lasciato morire la figlia minorenne di sete, segno che il concetto profondo di eutanasia – intesa come il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo, la cui qualità di vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica – è stato in qualche modo recepito dall’ordinamento.
Esistono mali incurabili e credo sia importante, ancora una volta, ricordare che quelli mentali non sono meno degni di quelli fisici. Meritano la stessa attenzione e la stessa compassione, la stessa serietà d’analisi e cura. Non sono più facili da trattare, né meno invalidanti e chi ancora seguita a pensarlo è semplicemente un ignorante. Causano al paziente “una sofferenza insopportabile e senza alcuna prospettiva di miglioramento” ed è per questo che è lecito poter discutere di eutanasia anche nel caso della patologia psichica. Essere a favore dell’eutanasia ed escludere a priori una malattia mentale dai contesti in cui è applicabile significa non considerare la mente dignitosa quanto il corpo.
Non esiste un valore sociale capace di giustificare completamente la vita di un individuo, ma è egli che individualmente si autogiustifica perché esiste, finché ne ha voglia, finché ne ha la forza, finché è libero di farlo. È la libertà di autodeterminazione che ci rende vivi, scegliamo di vivere. Chi vive per inerzia o perché senza alternative è già morto da tempo.
Accettarlo è qualcosa che può fare paura, ma solo quando l’avremo compreso saremo davvero liberi e forse scopriremo che la libertà di morire non è così diversa dalla libertà di vivere.
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