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Economia & Finanza

Cosa fare per riavviare il mercato del lavoro

Qual è ad oggi la situazione del mercato del lavoro post – covid in Italia? Piuttosto drammatica, come è facile immaginare.

Non sappiamo quanti siano esattamente coloro che hanno perso il lavoro: questo perché il ministero del lavoro non si perita di rendere pubblici i dati in suo possesso. Gli unici dati disponibili sono quelli del Veneto: nel mese di marzo sono stati persi 6000 posti di lavoro a settimana, in particolare per via dei mancati rinnovi di contratti a tempo determinato. Dati equipollenti a quelli della recessione del 2007/2008. Secondo Andrea Garnero, dell’Ocse, la perdita complessiva di posti di lavoro si aggirerebbe, a livello nazionale, intorno ai 25.000 a settimana. Sono calcoli grossolani, ma che da soli rendono l’idea.

Secondo i dati ufficiali, sono 7,7 milioni i lavoratori dipendenti (circa 1/3 del totale) che hanno fatto richiesta della cassa integrazione. Si dirà: perlomeno, per un certo lasso di tempo, costoro avranno uno stipendio garantito dallo Stato. La realtà, purtroppo, è assai meno rosea.
Secondo i consulenti del lavoro, la perdita di  reddito si aggira sui 3,5 miliardi di euro, con una decurtazione media di 472 euro (la cassa integrazione, infatti, corrisponde all’80% del reddito).
Non bastasse questo, la stragrande maggioranza dei lavoratori (il 78% di chi ha fatto domanda) non ha ancora ricevuto alcunché: per questo molti datori di lavori si sono fatti carico di anticipare gli stipendi ai lavoratori. Come gli altri sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione (solo in Italia ne esistono tre tipi!) è in capo alle regioni, il ché rende il meccanismo assai farraginoso, comportando tempi troppo lunghi per molti lavoratori.
Vi sono poi altre criticità: il divieto di cumulo, ovvero l’impossibilità per il lavoratore in cassa integrazione di cumulare due redditi, quindi di cercare ed espletare un altro lavoro nel momento in cui si è fermi (Perotti e Boeri, in un editoriale su Repubblica, ne hanno reclamaato l’abolizione – finora inascoltati) o il fatto che il lavoratore rimane legato, “cristallizzato”, ad un’azienda dal futuro incerto o in procinto di fallire. In sostanza, la cassa integrazione se da una parte consente al lavoratore di mantenere il posto di lavoro, dall’altra rappresenta spesso un forte disincentivo alla mobilità del lavoro (oltre a prestarsi ad abusi frequenti da parte delle aziende, di cui tanto si è detto in passato).
A differenza dei lavoratori dipendenti, autonomi e partite Iva hanno ricevuto tutti, indistintamente, un bonus di 600 euro (che dovrebbero diventare 800 a partire da questo mese), la sospensione (non cancellazione, si badi bene) delle tasse future, una linea di credito agevolata per poter ricevere finanziamenti e liquidità.
Misure insufficienti; sarebbe stato preferibile elargire a tutte le partite Iva una somma corrispondente a un dodicesimo del fatturato registrato l’anno scorso – stabilendo un tetto massimo  – così da premiarle e/o penalizzarle in base alla “fedeltà fiscale”. In Germania, tanto per fare un paragone, lo Stato, attraverso i Land, sussidia le aziende, da subito, e con procedure semplicificate, con versamenti che variano da 2500 a 10.000 euro al mese.
A seconda di quanto durerà il lockdown, maggiore sarà il numero di piccoli esercenti costretti a chiudere i battenti, e di riflesso di lavoratori che perderanno il lavoro. Per questo, a mio parere, è d’uopo riaprire al più presto, in sicurezza (se la Gdo, uno dei pochi comparti che ha beneficiato della situazione di crisi generale, si è adattata in pochi giorni, non si capisce perché non dovrebbero essere in grado di farlo anche le altre aziende).
Il Presidente del Consiglio, agli albori del lockdown, introdusse per legge una clausola temporanea volta a impedire alle aziende di effettuare licenziamenti dichiarando che nessuno avrebbe perso il lavoro a causa della pandemia. “Una pietosa bugia”, come ebbe a commentare De Bortoli sul Corriere della Sera. D’altronde lo stesso governo nel def stima – per difetto – in 500.000 il numero di posti di lavori persi questo anno.
Che fare, dunque, per rivilitazzire un mercato del lavoro in stato agonizzante?
Alcune scelte si possono implementare da subito, e sono a costo zero: cancellare il decreto dignità quantomeno nella parte relativa alle causali, che sono il più formidabile disincentivo alle assunzioni nei contratti a termine; reintrodurre i voucher limitatamente ad alcune professioni (agricoltura, baby sitter badanti ecc) – chi scrive, ai tempi del governo Gentiloni, era favorevole alla loro abolizione poiché erano stati stravolti rispetto alla loro funzione originaria, divenendo un modo per le imprese di comprimere il costo del lavoro, e un simbolo del “precariato”.
Altre riforme sono indifferibili, riorientando il nostro sistema di welfare secondo il principio “più welfare meno pensioni”: cancellare una selva di bonus inutili (bonus cultura, bonus IRPEF), alcuni tipi di detrazioni fiscali (ad esempio gli incentivi alle imprese), abbandonare ogni sconsiderata idea di prepensionamento, riformare il reddito di cittadinanza, riducendo gli importi e differenziandoli in base al costo della vita e alla numerosità del nucleo famigliare (assegnando molto di più alle famiglie e meno ai single); aumentare la spesa in istruzione e ricerca, sanità; ridurre il cuneo contributivo che grava sulle aziende, nella consapevolezza che sono loro a creare lavoro. Se non ora quando?, verrebbe da dire.
A questo proposito, sarebbe meglio servirsi del reddito di cittadinanza allargandone le maglie per un breve periodo piuttosto che introdurre un nuovo strumento (il cosidetto rem, reddito di emergenza) destinato a precari, lavoratori intermittenti, casalinghe, chi lavorava in nero (oltre tre milioni secondo l’Istat), insomma a tutte quelle persone che non possono accedere ai normali sussidi di disoccupazione.
Anziché far indebitare le imprese, Lo Stato dovrebbe far tutto il possibile per ripagare i debiti arretrati spettanti alle imprese; oltre a questo, foraggiarle con finanziamenti a fondo perduto.
La crisi economica che si preannuncia avrà un effetto asimmetrico, acuirà cioè ulteriormente le disuguaglianze sociali e il dualismo del mercato del lavoro (tra chi è fortemente garantito o tutelato, pensate ai dipendenti pubblici o a chi, pur suscettibile a ipotetici fallimenti di mercato, ha un contratto a tempo indeterminato rispetto a un precario). Questa recessione renderà tutti o quasi, per un periodo circoscritto di tempo, relativamente più “poveri”; ma chi lo era già ne risentirà di più.

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