Domenica 3 luglio un seracco si è staccato dalla sommità del ghiacciaio della Marmolada, nei pressi di Punta Rocca. Un iceberg pesante “come un condominio, con detriti e massi ciclopici” per usare le parole del Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, finanche riduttive se pensiamo che il fronte del distacco misurava circa 200 metri e la massa di ghiaccio si espandeva nella nicchia ora vuota per circa 60 metri d’altezza e 80 di profondità. 960mila metri cubi di volume quindi che equivalgono grosso modo a 880 milioni di kg di ghiaccio. Per inquadrare il fenomeno si tratta di circa 8 volte il peso della portaerei USS Nimitz, la più grande del mondo. Se pensiamo che il distacco è crollato rovinosamente a valle su un pendio a 45° per più di 1000 metri, ad una velocità di circa 300km/h, è facile delineare la tragedia che si è consumata investendo tra le venti e le trenta delle centinaia di persone che si trovavano sulla montagna. Nel tragico bilancio hanno perso la vita anche due Guide Alpine, maestri di alpinismo professionisti, internazionalmente riconosciuti.
Fin dal rincorrersi delle prime notizie molte persone, dotate di poca dimestichezza con l’ambiente alpino anche se magari nate e cresciute sotto le montagne, hanno iniziato a domandarsi come fosse possibile che qualcuno per giunta esperto si trovasse sul ghiacciaio durante questa ondata di caldo anomalo e come mai la zona non fosse stata interdetta.
La questione è relativamente semplice: l’estate proprio a causa della scarsa presenza di neve di norma porta con sé migliori condizioni per l’ascesa, in primis banalmente un minor rischio valanghe e un minor sforzo fisico necessario a muoversi nella neve alta. Infatti tutte le grandi cime hanno in storico la prima conquista -estiva- e la successiva ben più difficoltosa prima invernale, anche a distanza di anni.
Le nostre Alpi sono composte da permafrost anche al di sotto dei pendii rocciosi, che come nel caso della Marmolada si trova lì da millenni, e ghiaccio caratterizzato da un equilibrio dinamico di disgelo e rigelo con ciclo giornaliero ed annuale. Che ad esempio un torrente sgorghi da un ghiacciaio è cosa assolutamente normale, così come che i seracchi si aprano d’estate, ovvero che le crepe nel ghiacciaio alto anche centinaia di metri si inspessiscano ed arrivino in profondità, tagliando la lingua di ghiaccio per intero e formando in prossimità dei cambi di pendenza delle vere e proprie torri, generalmente stabili ma a perenne rischio caduta.
Ogni grande massa di ghiaccio o di neve (nevaio) durante le ore più calde della giornata si scioglie solo superficialmente per poi ricongelarsi durante la notte. La compattezza della struttura fa sì che non bastino temperature anche svariati gradi superiori allo zero per far sciogliere le formazioni, viceversa le piste “valangherebbero” sugli sciatori quotidianamente, visti i 10°C abbondantemente superati durante le ore centrali anche d’inverno nelle giornate solatie.
Le condizioni climatiche quest’anno si sono rivelate particolarmente insidiose a causa delle temperature che da circa un mese collocano lo zero termico sopra i 3500 metri, situazione in genere tipica verso la quarta settimana di luglio, ma nulla poteva far pensare al disastro che si è verificato. È un evento apocalittico e assolutamente imprevedibile come ammesso dallo stesso Soccorso Alpino e da Jacopo Gabrieli, esperto del CNR in studi polari e glaciologia con anni di ricerca internazionale alle spalle.
La soluzione per prevenire totalmente queste catastrofi, anche a posteriori, sarebbe vietare interamente l’accesso all’intero arco alpino ed è ovviamente qualcosa di impraticabile anzitutto da un punto di vista costituzionale. Ad ogni modo, resta fondamentale condurre una riflessione riguardo un alpinismo che diventerà sempre più accessibile nelle stagioni intermedie rispetto al classico periodo estivo che ne ha fatto la storia negli scorsi 200 anni.
Il rischio fa parte della montagna -come del vivere- e approcciarsi ad esso secondo una mentalità prettamente deterministica, propria del calcolo combinatorio, dove ad una particolare combinazione di condizioni corrisponde sempre un comportamento univoco da adottare, non è semplicemente possibile. Ragionare come fossimo in presenza di un diagramma di flusso o di una cascata IF dove “se è così -> faccio così -> perché ottengo questo”, molto comoda soprattutto per pontificare, non è minimamente rappresentativo della realtà oltre un certo limite.
Occorre superare un modello algoritmico bruto, meccanicistico, per abbracciarne uno inequivocabilmente probabilistico, dove ad un’azione corrisponda sempre un ventaglio di effetti e reazioni più o meno probabili. Credo che l’adeguatezza futura della democrazia, qui come sui vaccini e in molti altri campi scientifici, dipenda strettamente da questo salto concettuale nel dibattito pubblico.
Paradossalmente i nostri nonni ne erano ben consci, pur non essendo vincolati allo strumento matematico in sé.
Inserire una variabile metafisica come “il destino”, “il buon Dio” o “il volere della Montagna” era un espediente fondamentale per prendere atto dell’incertezza di fondo che caratterizza intrinsecamente il vivere e di come l’effetto di qualsiasi nostra azione sia sempre subordinato ad un certo grado di imprevedibilità quali che siano le nostre -doverose- scelte intraprese per abbatterlo.
È questo un concetto che oggi mi pare quasi misconosciuto, vittima di un “populismo determinista”, ben espresso anche col rischio zero e la medicina difensiva, che è il più grande ostacolo epistemologico allo sviluppo umano in questo secolo. E sui social lo si vede molto bene.