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L’attacco giapponese a Pearl Harbor

Al Congresso degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt non usò mezzi termini. All’indomani dell’attacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor il presidente democratico disse che il 7 dicembre 1941 sarebbe passato alla Storia come un giorno d’infamia. Fra le 6 e le 7 del mattino trecentocinquanta aerei giapponesi avevano distrutto gran parte della flotta americana nel Pacifico. Cinquantasette morti civili, trentacinque feriti. Otto corazzate ed otto incrociatori perduti. Quasi quattrocento aerei distrutti. Fu l’attacco alla base hawaiiana la ragione ufficiale di Washington per entrare in conflitto contro un Giappone che non aveva neppure formulato la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, presi alla sprovvista dall’operazione-lampo. L’attacco a Pearl Harbor segnò l’ingresso degli americani in un conflitto che da quel momento divenne mondiale.

Schierandosi con Londra, che per oltre un anno resistette da sola al Nazifascismo, l’America lanciava anche un segnale ai totalitarismi d’Europa. Germania e Italia dichiararono guerra a Washington l’11 dicembre. Si aprì così anche il fronte del Pacifico, dove gli americani combatterono più di quanto fecero in Europa. D’altronde, Washington era stata umiliata dai giapponesi: sconfiggerli era una priorità assoluta. In America si sviluppò un astio generalizzato nell’opinione pubblica contro il Giappone e i giapponesi. Parecchi americani di origine giapponese subirono una rappresaglia governativa e furono rinchiusi in campi di detenzione, con l’accusa di essere spie di Hirohito. Fu un atto grave da parte delle autorità statunitensi; una ferita ancora aperta nella storia del paese. Tuttavia, uno degli effetti dell’attacco a Pearl Harbor fu che gli Stati Uniti uscirono dal guscio isolazionista.

Sia destra che sinistra statunitensi erano d’accordo su una cosa: non si doveva intervenire nel conflitto europeo. A destra, gli isolazionisti erano contro FDR perché questi simpatizzava per Londra e non per Berlino. A sinistra, perché il democratico era visto come imperialista, antipacifista e amico delle lobby delle armi. L’attacco a Pearl Harbor fu anche una risposta agli embarghi statunitensi di ferro e petrolio che avevano lo scopo di punire il Giappone per l’invasione della Cina. Nella narrazione giapponese degli eventi, l’attacco alla base americana era giustificato, dal momento che gli Stati Uniti stavano mettendo in difficoltà l’economia del Sol Levante. Non tanto in termini di materie prime (Tokyo era dipendente dal petrolio americano), quanto di macchine sofisticate ed aeroplani.

L’attacco a Pearl Harbor fu un successo in ottica giapponese. Tuttavia, gli esiti della guerra lasciarono un Giappone distrutto e un’America dominante. Gli americani non combatterono una guerra sul loro suolo e questo contribuì a creare la superpotenza che emerse dalle ceneri di un mondo a pezzi. Questo non fu previsto dall’impero giapponese che, ingordo di territori come la Germania nazista con l’Unione Sovietica, rischiò il tutto e per tutto. Lo sforzo bellico sui due fronti, giapponese ed americano nella guerra del Pacifico, fu notevole. Tutto era cominciato in una piccola base nelle Hawaii. Dall’attacco a Pearl Harbor, dalla ferita americana, iniziò la speranza europea. A combattere il Nazifascismo non c’era solo un’isola indebolita, ma una repubblica lontana, tra due oceani, che per la seconda volta in vent’anni veniva a salvare gli europei.

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