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La fine dell’Università

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L’università italiana naviga in cattive acque, basta dare un’occhiata alla Qs World University Rankings per farsene un’idea: tra le 100 migliori università del mondo non figura nemmeno un ateneo nostrano nonostante alcune prestigiose facoltà grazie a cui l’Italia si è sempre distinta, come Storia. Tra le prime 200, solo 3.

Mentre gli iscritti ai corsi sono già nettamente al di sotto della media europea, il tasso di abbandono degli studi cresce. Il nostro è ad oggi il più alto del mondo. Ne deriva un 27% di laureati contro una media europea superiore al 40%.

È intuitivo pensare ad una scarsa professionalizzazione alla base del problema: raccordi col mondo del lavoro labili quando non inesistenti, corsi scarsamente formativi a livello tecnico e programmi vetusti, come del resto lo sono anche molti professori. Ai titolari di cattedra nel nostro Paese viene poi concessa la rarissima quanto invidiata onorificenza di maestri del sapere e della gnoseologia “a tempo indeterminato” purché si impegnino in una pubblicazione semestrale, non importa cosa e dove. Le nostre università si annoverano infatti tra quelle con la peggior qualità delle pubblicazioni scientifiche.

Concorsoni parastatali e investimenti insufficienti nella ricerca -in qualsiasi campo- completano il quadro di un sistema che da punta della lancia di un Paese democratico è diventato ciò che in Italia adoriamo di più, una mangiatoia.

La didattica tutta è concepita anzitutto come forma di occupazione pubblica e solo secondariamente come principale organo formativo.

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un fiorire di nuovi indirizzi, molti assolutamente privi di spendibilità professionale e allo stesso tempo privi di valore culturale.

Occorre qui una doverosa digressione: il ruolo della formazione accademica non può limitarsi all’insegnamento di una mansione e personalmente stimo moltissimo chi, potendoselo permettere, si iscrive a Filosofia per cultura personale. Credo inoltre che queste figure siano fondamentali in una società sempre più tecnica, dove le logiche di produttività ed efficienza regnano incontrastate in ogni settore e dove presto la completa automazione prenderà il sopravvento in svariati settori, obbligandoci a riformulare la centralità dell’individuo.

Ciò che però mi lascia perplesso è osservare come un testo di 400 pagine possa essere diluito in un corso di laurea triennale e spacciato per qualcosa di professionalizzante, a spese dei contribuenti. Di questi corsi potrei portare innumerevoli esempi: comunicazione e marketing, web design, photo-video-content editing, programmazione varia, scienze di…

Nessuno regge il confronto con la realtà lavorativa, dove un mercato dinamico sceglie chi ha sviluppato velocemente particolari skill, frequentemente online.

Ed eccoci finalmente giunti a scoperchiare il vaso di Pandora: l’e-learning. Fino a pochi anni fa considerato un prodotto degenere dell’insegnamento, oggi è in rapidissima espansione, anche per merito del covid. Non è un segreto che le più grandi software house italiane, Zucchetti per citarne una, prediligano per svariate posizioni corsi specialistici non universitari a lauree triennali. L’intero settore DevOps in Italia è completamente sfuggito agli ambienti accademici ed è ormai in grado di auto-alimentarsi sfornando nuovi talenti. La tecnologia non aspetta di certo i tempi del nostro statalismo.

In questo contesto si inseriscono i tanti corsi non universitari che popolano l’offerta formativa professionalizzante, l’ultimo in ordine cronologico è quello annunciato qualche giorno fa da Google: 6 mesi online con i migliori esperti del pianeta, costo base 300€. Tutta sostanza.

E che nessuno si azzardi a paragonarlo ad una laurea. Nessuno lo vuole, nessuno ha intenzione di ricamarlo su 3 anni per poterci corredare omaggio un attestato con valore legale. Insomma, in questi settori la laurea per come è concepita oggi già non serve.

Le facoltà che di fronte a questa rivoluzione sembrano reggere meglio il colpo sono quelle sperimentali, una tra tutte Medicina, ma anche qui occorre prestare attenzione: se da un lato sono effettivamente più spendibili sul piano lavorativo in virtù di una formazione sul campo non ancora pienamente sostituibile, dall’altro è in primis il valore legale del titolo di studio (unito al numero chiuso) a renderle spesso tali. È l’ultimo grande argine che impedisce di mettere a nudo l’inadeguatezza sovente nascosta anche in questi percorsi di studio, eccessivamente teorici, ridondanti e privi di aggiornamento esattamente come gli altri.

Non è un caso, ad esempio, che si paventi di concedere alle aziende ospedaliere la formazione diretta degli specializzandi, visto l’estremo bisogno di specialisti. Non è un caso nemmeno che gli atenei si siano da subito detti fortemente contrari: il rischio evidente è porre nero su bianco la capacità dei grandi e medi poli ospedalieri, non universitari, di formare più efficientemente i nuovi medici.

Seppur ascrivibile ad un panorama estremamente variegato, nel suo complesso il mondo accademico italiano si configura come una macchina dispendiosa ed inefficiente, pressoché impossibile da riformare per intero, ma sempre più assediata dalle incalzanti esigenze di mercato.

Non mi stupirei se, prima di andare in pensione, le università per come le conosciamo oggi cessassero di esistere.

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