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La distinzione “morto con Covid o per Covid” è insensata

Sin dall’inizio dell’emergenza legata alla SARS-CoV-2, il dibattito pubblico italiano è stato investito da un’ondata di congetture scettiche sulla natura del virus; congetture non meno virulente del nemico invisibile che ci siamo trovati ad affrontare. Molto spesso tali supposizioni, come quella (smentita) del virus creato in laboratorio, traevano la loro forza dalla narrazione apocalittica che le circondava. Tuttavia, al di là dei loro risvolti comici, simili teorie vengono facilmente disinnescate sul piano razionale, una volta spogliate della loro aura superstiziosa. Il reale pericolo della disinformazione attorno al Covid-19 deriva piuttosto da tutte quelle congetture più sottili che non disconoscono in toto il problema, ma si impegnano a sottovalutare o a negare aspetti parziali ma fondamentali del Covid-19. Ed è proprio all’interno di questa seconda categoria che rientra un argomento tanto diffuso quanto insidioso, e che è bene smentire una volta per tutte. Tale argomento suona più o meno così:

«Il Covid non è così pericoloso come lo dipingono, perché la maggior parte dei decessi non è dovuta direttamente al virus, ma alla compresenza di patologie pregresse e di altre complicanze. Perciò bisogna distinguere tra morti con Covid e morti per Covid: i secondi in realtà sono pochissimi e non corrispondono al totale dei morti diffuso dai media».

Ora, è bene dire sin da subito che l’argomento appena presentato è smentito dai fatti ancor prima che dalla teoria. Basterebbe andarsi a leggere uno studio dell’Istat in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) risalente allo scorso 16 luglio. Lo studio in questione ha analizzato 4.942 schede di morte di soggetti risultati positivi al SARS-CoV-2, corrispondenti al 15,6% del totale dei decessi in Italia notificati dall’ISS fino al 25 maggio 2020. Ebbene su un campione di quasi 5mila deceduti si è scoperto che il Covid-19 è la causa direttamente responsabile della morte nell’89% dei casi, seguito da malattie cardiovascolari (4,6%), tumori (2,4%), malattie del sistema respiratorio (1%), diabete (0,6%), demenze (0,6%) e malattie dell’apparato digerente (0,5%).

In altre parole, ben nove volte su dieci il Covid è la causa iniziale di decesso, laddove “causa iniziale” è una definizione dell’OMS con cui si intende «la malattia o il traumatismo che ha dato inizio alla catena di eventi morbosi che ha portato direttamente alla morte».

In teoria la discussione potrebbe terminare qui, poiché i dati smentiscono senza possibilità di appello l’idea che il Covid sia una semplice concausa dei decessi. Ma perché è così importante non fermarsi qui e insistere sulla fallacia della distinzione con Covid-per Covid?

Innanzitutto perché da essa seguono corollari altrettanto fuorvianti e pericolosi. Tra questi, ad esempio, vi è l’idea miope che il virus in fin dei conti sia solo un problema degli high-risk groups, ossia di tutte quelle persone in fasce di età avanzata, di solito over 60, o con problemi di salute preesistenti quali diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. In realtà siamo già in possesso di numerose evidenze che testimoniano i danni che il Covid può causare nel lungo periodo nei low-risk groups, cioè in quelle categorie, come i giovani in salute, che di norma sono meno vulnerabili al virus. Non è infrequente, infatti, che i giovani reduci da forme più o meno gravi di Covid manifestino complicanze nei mesi successivi all’infezione, come affanno, brain fog e stanchezza continua.

Altro corollario è l’idea che i numeri sulla mortalità da Covid siano sovrastimati. La realtà dei dati, però, ci dice esattamente l’opposto: i dati ufficiali dei decessi da Covid in Italia sono largamente sottostimati. Per verificare questa asserzione bisogna consultare un altro tipo di report dell’Istat: quello che mette in luce la cosiddetta excess mortality, ossia l’eccesso di morti del 2020 rispetto alla media degli anni passati. I dati dell’Istat al riguardo ci dicono che nei primi otto mesi del 2020, rispetto alla media decessi del quinquennio 2015-2019, sono morte circa 48mila persone in più; e questo senza considerare le vittime della seconda ondata (settembre-ottobre-novembre), il cui conteggio richiederà ancora alcuni mesi di attesa. Le morti in eccesso si concentrano, ovviamente, nei mesi primaverili della prima ondata e si stima che circa 29mila di queste siano direttamente riconducibili al Covid (in realtà non esiste una stima sicura sull’excess mortality del Covid, ma il concetto che qui si vuole esprimere non cambia). Questo dato si spiega col fatto che a moltissime vittime della prima ondata non è stato possibile effettuare il tampone, perché decedute in casa da sole o nelle RSA. Ciò vuol dire che i numeri sui decessi totali pubblicati dalla Protezione Civile sono dati al ribasso.

Nonostante questi e altri insidiosi corollari, però, la motivazione principale per smontare nel dettaglio la distinzione con Covid-per Covid è un’altra: permettere di portare alla luce la logica corrotta che sta dietro all’argomento. L’aspetto cruciale, infatti, non è l’affermazione (fallace) sui decessi, ma l’incomprensione totale di quale sia la reale pericolosità del Covid, e da cosa essa dipenda. È quindi il caso di ragionare facendo finta che quello studio dell’Istat citato all’inizio non sia mai esistito: perché non ha comunque alcun senso domandarsi se i decessi siano dovuti direttamente al Covid?

Il motivo principale è che questa domanda lascia intendere, erroneamente, che la pericolosità del Covid sia legata solo alla gravità della sintomatologia sviluppata dalla malattia. In realtà, nell’esiguo bagaglio di certezze sul virus che abbiamo accumulato, vi è un fatto ormai noto: la pericolosità del Covid-19 è in buona parte proporzionale all’intensità dello stress test cui è sottoposto il sistema sanitario nazionale. In altre parole: non è tanto il virus in sé ad essere pericoloso, bensì la combinazione fra la sua altissima infettività e la relativa scarsità di risorse sanitarie che vi si contrappone.

La lotta al Covid-19, in un certo senso, è un continuo processo di gestione che ha lo scopo di mantenere sostenibile la velocità di circolazione del virus, a fronte della ‘finitezza’ tanto delle risorse sanitarie (posti letto in terapia intensiva, respiratori, bombole d’ossigeno) quanto delle risorse psico-fisiche del personale medico. Infatti quando la saturazione dei reparti Covid si estende per periodi molto lunghi è naturale che ne risenta anche la qualità delle ospedalizzazioni.

Perciò ha un’importanza molto relativa chiedersi se un malato sia effettivamente deceduto di polmonite oppure no: in assenza del virus quel paziente avrebbe evitato il ricovero e l’aggravarsi delle comorbidità che lo hanno condannato a morte. Così come avrebbe evitato di perdere i numerosi anni di vita che gli sarebbero ancora rimasti.

E infatti il tema degli years of life lost, ossia degli anni di vita persi dalle vittime del Covid, in Italia rimane ancora ignoto al dibattito pubblico. Siamo davvero sicuri che si possa parlare con tanta leggerezza di un “virus dei vecchi”? E siamo davvero giustificati nel pensare che i deceduti, in fondo, avessero ancora poco da vivere? I dati sembrano dirci il contrario.

Uno studio del genetista Stephen Elledge sul territorio americano ha rivelato una media di ben 13.25 anni persi per ciascun malato Covid deceduto. Il risultato può sembrare all’apparenza controintuitivo, giacché siamo soliti pensare alle vittime del virus come a persone molto ‘vicine’ a una morte naturale. Ma, come scrive lo stesso Elledge, «questo equivoco è il risultato dell’incapacità di comprendere che gli individui considerati anziani hanno ancora una sostanziale speranza di vita rispetto a quella calcolata alla loro nascita». Ancora una volta è necessario considerare tutte le sfaccettature del fenomeno che abbiamo di fronte; sfaccettature che spesso sembrano perdersi nel marasma dei ragionamenti semplificatori, proprio come la distinzione con Covid-per Covid.

Nonostante la sua acclarata inconsistenza, la distinzione con Covid-per Covid continua a esercitare una notevole forza di persuasione, contribuendo a derubricare il nuovo coronavirus a un’influenza un po’ più molesta. Sarebbe un errore, però, pensare che dietro la diffusione di questo argomento ci sia solo la pura volontà di disinformare.

Mentre il più delle volte è proprio così, come nel triste caso di alcuni esponenti politici di opposizione, è altrettanto vero che il comune cittadino non è sempre mosso dall’intento di avvelenare i pozzi. Talvolta aderire a ragionamenti superficiali risponde a un umano bisogno di riduzione della complessità: la mole di informazioni da processare è così elevata che è preferibile adagiarsi su un gioco di prestigio, su una spiegazione immediata e intuitiva dello stato di cose. Meglio ancora se la spiegazione si presta a conclusioni rassicuranti, come l’idea che il virus colpisca solo gli anziani.

E tuttavia non possiamo far finta che la responsabilità di questa confusione diffusa ricada solo sui giornalisti o sulla comunità scientifica: abbiamo il dovere morale di migliorare la qualità dell’informazione all’interno nel nostro microcosmo; anche se questo può costarci delle discussioni, anche se può portarci dei disagi.

La lotta al coronavirus passa anche attraverso il coraggio di sottrarsi alla pigrizia intellettuale.

1 comment

Dario Greggio 10/12/2020 at 20:39

la cosa più bella degli ultimi 30 anni ;)

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