L’Italia della “Terza Repubblica” sembra essere cambiata così tanto da non essere cambiata per nulla (per dirla alla Tomasi di Lampedusa) rispetto alla “Prima”, in quanto ancora oggi si parla – da un lato – della corruzione dei politici e, – dall’altro – dell’atteggiamento dei magistrati di fronte a questa piaga, soprattutto dopo il vespaio scatenato dalle dichiarazioni del nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo, tra le quali quella che ha destato più scalpore, non solo mediatico, è stata: «I politici continuano a rubare, ma non si vergognano più».
Su queste tematiche già dibatteva quella grande penna che era Indro Montanelli. Egli asseriva che la corruzione fosse inestirpabile, in quanto trattasi di un fenomeno che dura sin dai tempi della dominazione romana e, a differenza di quanto pensino in molti ancora oggi, per lui la corruzione non era – e, a mio avviso, non è – solo nella politica, ma era ed è profondamente radicata nella società italiana. Secondo il compianto giornalista, la lotta alla corruzione si potrebbe fare soltanto in un modo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche, perché quest’ultime, anche quelle nuove, si corrompono. Per fare ciò occorrerebbero degli ottimi educatori nelle scuole e nelle famiglie, ma il Bel Paese sembra sempre più manchevole di queste risorse; infatti, non è un caso se anche lo stesso Giovanni Falcone sentiva l’impellente necessità di affermare che «per vincere la criminalità in modo definitivo sarebbe necessario sì un esercito, ma di maestri delle elementari», proprio a sottolineare come sarebbe l’educazione il fulcro della questione morale.
Il politico francese George Benjamin Clemenceau, tra gli artefici del celeberrimo Trattato di Versailles, sosteneva che non esiste democrazia senza un minimo di corruzione, ma per Montanelli in Italia c’era non il minimo, bensì il massimo.
Anche “Mani Pulite”, per Montanelli, non poteva essere il momento nel quale la corruzione sarebbe stata radicalmente estirpata, in quanto già prima definita inestirpabile, ma doveva essere quello in cui la si riportasse a quel minimo di cui parlava Clemenceau, anche se la sua era una speranza alquanto labile, pur definendo l’Antonio Di Pietro magistrato come «l’uomo della provvidenza».
Su quell’inchiesta, piuttosto, aveva un altro genere di certezza e, cioè, che essa ebbe come lascito quello di aver trasformato i pubblici ministeri in divi, anche se – a dire il vero – si trattava di un lascito involontario. Tutto ciò proprio a causa della pubblicità che fu data ai processi, tanto che i magistrati facevano quasi a gara per raggiungere la notorietà, arrivando agli eccessi di processi senza alcun fondamento. Ma non è proprio quello che accade anche al giorno d’oggi?
Però, egli non risparmia parole di condanna nei confronti dei suoi stessi colleghi, rei di aver fornito l’humus attraverso il quale questo «virus del protagonismo» si è potuto propagare.
Nel frattempo, è cambiato qualcosa? Se siamo ancora qui a sceverare questi temi evidentemente qualcosa non è andata come doveva o poteva. Sono cambiate le classi politiche, sono state sostituite alcune delle modalità di selezione delle stesse con metodi più o meno efficaci e trasparenti (ad esempio, qualcuno ha introdotto le primarie, o la selezione via web), ma il cancro della corruzione è ancora lungi dall’essere sconfitto. La magistratura, dal canto suo, avrebbe bisogno di ripensare a quello che è il proprio ruolo e che i singoli magistrati non si prestino a deprecabili giochi di potere, esponendo così l’intero «ordine» al pubblico ludibrio, anche per il fatto che in Italia tutt’ora vige, o almeno dovrebbe, il principio della separazione dei poteri.
Ciò che è certo è che il Montanelli pensiero non sembra per nulla anacronistico, erigendosi su idee che possono considerarsi attuali, non trovando prove circostanziate che possano far propendere per il contrario.
La corruzione è, quindi, veramente inestirpabile? Ipse dixit.