Negli anni del miracolo economico il soft power – la capacità di creare consenso mediante fattori culturali e valori immateriali – entra nella storia d’Italia. Enrico Mattei fu tra i primi a comprenderne le potenzialità nella corsa dell’Eni verso i giacimenti di gas e petrolio africani. Il cuore pulsante della sua strategia fu il racconto di un’Italia ultima fra i primi e scevra di pesanti fasti coloniali, che in questo modo divenne un riferimento per molti giovani leader africani.
In quella fase, l’Italia si sarebbe in breve tempo trasformata in una potenza industriale di primo rango. Una parentesi d’oro, possibile grazie alle risorse del Piano Marshall e allo sviluppo di un’impresa dinamica e innovativa, che seppe proporre sul mercato prodotti di grande successo, al punto da diventare iconici.
Oggi l’Italia si trova di fronte a una nuova opportunità di crescita, a patto che i fondi del Next Generation EU vengano investiti in modo efficace sulla base di una strategia di lungo periodo e di sinergie tra intervento pubblico e azione privata. Ma non solo. Occorre una visione di come rappresentarsi in Europa e nel mondo. In altre parole, nel nostro Paese occorre chiedersi quale sia il modello – il “posizionamento” – da conseguire.
Tornando alle categorie tracciate dal politologo statunitense Joseph Nye, nella crescente complessità contemporanea la leadership necessita del cosiddetto smart power, ovvero di una combinazione intelligente di strumenti hard e soft power. E, in un mondo di colossi pubblici e privati, è proprio puntando su questi ultimi che l’Italia può consolidarsi e, soprattutto, rilanciarsi come player globale.
Nel Best countries ranking, pubblicato dall’editore americano US News & World Report ed elaborato dall’Università della Pennsylvania, l’Italia è il primo Paese al mondo per influenza culturale. Non è un fatto di poco conto o di semplice costume. Al contrario, il potere di attrattiva dalla cultura e dell’immagine del nostro Paese costituisce una leva importantissima nelle relazioni internazionali, nella competizione globale e sui mercati. Una leva da rafforzare e sfruttare.
Il soft power dell’Italia non è solo il prodotto di aspetti storici, culturali, artistici e ambientali, ma anche – e per alcuni versi soprattutto – dell’impresa italiana, capace di caratterizzarsi all’estero per la qualità dei prodotti e del design, e del concetto di “Made in Italy”, che dagli anni Ottanta esercita il suo fascino magnetico in tutto il mondo, dal Sud-Est asiatico al Nord America.
Le politiche di soft power presuppongono come soggetto l’intero sistema Paese, quale insieme delle sue energie politiche, economiche e sociali. A tal proposito, come da più parti sostenuto, è stata evidente la tendenza del governo presieduto da Giuseppe Conte di attribuire alla sfera pubblica un ruolo eccessivo. Lo si riscontra nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, fatto che finisce per svilirne la dimensione emotiva e visionaria – a tal proposito, l’auspicio è che l’intervento di Mario Draghi possa essere il più incisivo possibile – oppure nella bizzarra operazione della Netflix italiana, la ITsART, sotto la regia di CDP, che con un investimento pubblico di appena 10 milioni di euro vorrebbe offrire contenuti sulla cultura italiana nel mondo (eppure il caso de La Regina degli Scacchi avrebbe dovuto insegnare qualcosa su come una semplice produzione Netflix possa essere straordinariamente incisiva).
E’ soprattutto grazie alle iniziative imprenditoriali e culturali dei tanti italiani all’estero che l’Italia continua a esercitare il suo soft power mentre altri Paesi, come gli Stati Uniti e la Francia, investono decine di milioni di dollari per scuole internazionali, eventi e piattaforme mediatiche. Per non parlare della Cina, che ha appositamente varato la Belt and Road Initiative – la nuova Via della Seta – come strumento di soft power globale.
Quest’ultimo è chiaramente un livello che non compete all’Italia, ma piuttosto all’Europa. In tal senso, il Next Generation EU – oltre che come un piano di ripresa – si configura come un programma di soft power dell’Unione Europea rispetto agli Stati membri, in risposta a sovranismi e alla Brexit, e pertanto richiede un ulteriore salto di qualità. Bruxelles dovrà necessariamente guardare a Sud e all’Africa, il continente che correrà più di tutti nei prossimi decenni e che, peraltro, ha inaugurato la sua area di libero scambio interna proprio sul modello della prima CEE .
Per l’Europa un possibile obiettivo potrebbe essere lavorare a un’area euro-africana di scambio e libera circolazione di merci e persone, unendo di fatto i due continenti. Di certo, l’Italia sarebbe uno degli Stati membri a beneficiarne di più, sia per via della posizione geografica che per i crescenti interessi economici italiani in Africa.
In generale, il soft power è una delle chiavi per il rilancio del nostro Paese. Per anni è stata propinata la storia che “il turismo è il nostro petrolio”, mentre il vero petrolio italiano è l’eccezionale valore immateriale e percepito della nostra cultura, delle nostre imprese e della nostra immagine. Lo aveva capito Mattei, che cercava il petrolio – quello vero – facendo leva sull’italianità e sul suo racconto.
Oggi ci sarebbero due aspetti o direttrici strategiche. In primo luogo, consolidare e aumentare l’appeal del Made in Italy come sinonimo di qualità, tecnologia, ricercatezza e bellezza. In secondo luogo, un punto ancora più rilevante. La competizione globale basata su ricerca e innovazione sta spingendo gli Stati ad accaparrarsi menti e talenti. Il capitale umano è sempre più prezioso e diffuso: università, centri di ricerca e imprese lavorano ogni giorno per attrarre i migliori. In questo scenario, il nostro Paese dovrebbe seriamente investire nei programmi di internazionalizzazione delle università italiane, supportando ogni azione o progetto teso ad attrarre un giovane in formazione.
Milioni di giovani provenienti dall’Africa, dal Sud America e da ogni parte del mondo scelgono di frequentare un’università occidentale. La sfida è provare a portarli in Italia, offrendo loro non solo un piano formativo ma anche un pezzo del nostro patrimonio culturale e umano. Perché non riconoscere la cittadinanza a chi tra questi consegue una laurea magistrale o un dottorato e vive nel nostro Paese per dieci anni? Non sarebbe la più dirompente politica di soft power? Non renderebbe l’Italia il centro della ricerca e della cultura del mondo? La visione ha spesso – quasi sempre – bisogno di coraggio.
Nella foto un fotogramma dello spot conosciuto come “Italians are coming” che sta andando in onda in Nuova Zelanda in occasione della finale della Prada Cup.