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Espressione genica e libero arbitrio: siamo predestinati?

Espressione genica

È una questione genetica“. Lo sentiamo spesso dire a proposito dell’insorgenza di determinate patologie, inestetismi, condizioni fisico-cliniche varie e, in tempi recenti, tratti comportamentali o sfumature della personalità. Ma quanto una persona è geneticamente predestinata? Quanto i nostri geni giustificano le nostre scelte esulandoci da eventuali responsabilità? Quale ruolo gioca l’ambiente?

Da tempo il concetto di libero arbitrio si scontra sul fronte sociologico con la rilevanza che le influenze ambientali – fisiche e culturali – esercitano su una persona, ma solo nell’ultimo decennio le neuroscienze, servendosi della neurobiologia, hanno aperto un nuovo fronte d’attacco sul piano genico. Se oggi capacità di autoderminazione e libero arbitrio sono popolarmente viste come un recesso territoriale sempre più circoscritto nel co-dominio incontrastato di ambiente e genetica è forse perché poco ancora si conosce del concetto, relativamente nuovo ma ampiamente dimostrato, di espressione genica.

Paragonando il DNA unico di un individuo ad un libretto non modificabile delle istruzioni, il modo, l’ordine e il numero di volte che queste vengono lette (ed eseguite) sono incredibilmente variabili, condizionati fino a 20 anni fa in maniera impensabile dall’ambiente e dalle nostre scelte personali. L’espressione genica è il motivo per cui un muscolo si ingrossa se allenato o una persona diventa più alta se durante la crescita sceglie una certa alimentazione o ancora per cui due gemelli omozigoti (con lo stesso DNA) sviluppano nevinèi– in parti diverse del corpo.

Fin da prima della scoperta del DNA (Watson e Crick, 1953) la ricerca di cause genetiche capaci di spiegare i meccanismi alla base delle patologie più varie ha attratto migliaia di studiosi. Spiegare poi attaverso la genetica comportanentale tratti della personalitá e sancirne l’ereditarietà fu un obiettivo che ingolosì intere generazioni di scienziati nella prima metà del ‘900. In breve tempo si fece strada l’idea che potesse esistere sempre un rapporto di causalità diretto tra il codice genetico di un individuo e la sua condizione fisico-clinica. Questa concezione fu la principale spinta al sequenziamento del genoma umano e trovò anche importanti riscontri, come quando nel 1989 il dottor Lap-Chee Tsui per la prima volta riuscì a spiegare interamente i meccanismi patogenetici di una malattia, la fibrosi cistica, scoprendo la mutazione genetica che la causava.

Purtroppo i dubbi che la ricerca pose negli anni a venire sulla potenziale estensione di questo rapporto causale a tutte le patologie vennero definitivamente confermati nel 2001, quando per la prima volta venne sequenziata larghissima parte del genoma di un essere umano. Ci si rese presto conto che la conoscenza di ogni singolo nucleotide, componente la molecola di DNA di un organismo, non avrebbe di per sé potuto spiegare molto, perché nella regolazione dei processi di trascrizione (DNA -> RNA) e traduzione (RNA -> proteine) interveniva una miriade di variabili sconosciute o non pienamente comprese. Il numero delle malattie genetiche come la fibrosi cistica, dove una mutazione nota su un gene (denominato CFTR) portava ad un outcome conosciuto e prevedibile (la sintesi mancata o disfunzionale di una proteina necessaria al funzionamento del canale cloro-bicarbonato) fu di molto ridimensionato rispetto alle iniziali aspettative. Oggi, nonostante i meccanismi che causano la fibrosi cistica siano ben noti, sono state osservate circa 2200 mutazioni diverse che possono causare la patologia: tutte interessano il gene CTRF (composto da 6128 lettere) e il loro numero è destinato ad aumentare. Il quadro che si delinea, pur essendo in questo caso caratterizzato da un rapporto diretto ed esclusivo di causalità tra gene e patologia, risulta incredibilmente distante dalla dozzinale accezione di predestinazione genetica solitamente propinata sulla falsariga della divinazione.

Per molte altre patologie, poi, questo nesso di causalità diretta è anche molto meno forte (perché entrano in gioco altri fattori insieme alla mutazione) o addirittura assente. Non sempre è quindi possibile ricondurre una patologia spontaneamente insorta ad una mutazione nel DNA di una persona e anche quando lo è non è detto che la correlazione sia biunivoca: alcune malattie come la celiachia sono ad esempio causate da una mutazione genetica su loci HLA specifici (DQ2, DQ8, DR4…). La mutazione è quindi condizione necessaria per sviluppare la malattia ma di per sé non sufficiente. Altri fattori ambientali, come l’esposizione al glutine ma non solo, contribuiscono in maniera determinante all’insorgere della patologia, solo così la gliadina presente nel glutine viene presentata dalle APC ai linfociti T e grazie alla mutazione del complesso HLA si attiva la risposta immunitaria. Di nuovo è l’espressione genica a fare da padrona, ovvero la capacità di attivare la lettura delle istruzioni già contenute nel genoma dalla nascita.

A ben pensarci il concetto di espressione genica è estremamente intuitivo: nel momento del concepimento cellula uovo e spermatozoo si fondono dando origine al DNA dello zigote, la prima cellula del nascituro che, dividendosi progressivamente, darà origine a tutte le altre. Tutte le cellule di un individuo avranno quindi lo stesso DNA, che per questo è rintracciabile ad esempio su una scena del crimine da diversi liquidi biologici, bulbi piliferi e potenzialmente qualunque cellula ben conservata.

Eppure dallo stesso DNA originano decine e decine di linee cellulari estremamente specializzate e differenziate: neuroni, fibrocellule, eritrociti e linfociti, osteoblasti e osteoclasti… Queste contribuiscono a comporre strutture complesse e altamente funzionali (rispettivamente il sistema nervoso, la muscolatura, il sangue e le ossa). Come è possibile se tutte sono caratterizzate dallo stesso DNA? Banalmente come è possibile che dalla divisione dello zigote in 2 cellule identiche e poi in 4 e così via si giunga a qualcosa di diverso da una morula, e inizino a spuntare testa, occhi, mani e gambe?

L’espressione genica consiste appunto nel leggere solo alcune parti del libretto delle istruzioni e seguirne le indicazioni in maniera parziale: in ogni cellula alcuni geni saranno espressi, ovvero trascritti e poi tradotti, in soldoni utilizzati, mentre la maggior parte degli altri resterà inespressa, come se non esistesse. Così dalla cellula staminale seguiranno progressive differenziazioni che esprimendo geni diversi creeranno proteine diverse e cellule diverse, alcune di queste pur esprimendo gli stessi geni saranno influenzate da diversi fattori morfogenetici, che consentiranno l’organizzazione delle cellule in strutture complesse ancora una volta grazie al sofisticatissimo e fallibile processo di espressione genica.

L’espressione genica non è rappresentabile semplicemente come fenomeno qualitativo, gene on/off (espresso/inespresso), ma è caratterizzata anche una parte quantitativa rilevante. Un gene può essere over o under espresso, temporaneamente o permanentemente. Questo è, ad esempio, ciò che succede quando la risposta immunitaria ad un qualsiasi agente patogeno attiva la cascata infiammatoria: senza entrare troppo nello specifico, alcune molecole (ve ne sono a centinaia) attivano direttamente legandosi ad uno specifico ligando, o indirettamente attraverso un recettore (es. tirosin-chinasico) un fattore di trascrizione, ovvero una molecola capace di legarsi al DNA e regolare la trascrizione dei geni in RNA, facendo leggere all’RNA polimerasi la stessa istruzione più volte (enancher) o facendola saltare (silencer). In questo modo è possibile creare una serie di proteine differenti, per gli scopi più vari, senza alterare il DNA ma leggendone le singole istruzioni dalle porzioni utili ad un determinato fine.

Se talvolta l’espressione genica è guidata dalle peculiarità biochimiche di micro-ambienti, come quello citoplasmatico o uterino, altre volte sono i macro-ambienti che la determinano, come nel caso dell’alta quota, dove una minor pressione d’ossigeno stimola l’eritropoiesi, la creazione di eritrociti per trasportare in maniera più efficace il poco ossigeno disponibile, che viene intensificata agendo con specifici fattori di crescita sulle cellule staminali del midollo osseo. Di nuovo esse non modificano il loro DNA, ma lo esprimono in maniera diversa.

Altre volte sono le scelte individuali del singolo a fungere da driver per l’espressione genica. È questo il caso di alcune metaplasie, ovvero trasformazioni atipiche del tessuto cellulare. Nell’esofago di Barrett le cellule differenziate che ricoprono la parete dell’esofago, continuamente esposte agli acidi gastrici a causa del reflusso gastro-esofageo e/o del consumo di alcolici, vanno incontro a ulteriore differenziazione che le fa somigliare maggiormente alle cellule duodenali (poste dopo lo stomaco e non prima). La metaplasia, che per definizione è un processo reversibile, può essere seguita da vere e proprie mutazioni genetiche indotte dall’ambiente e sfociare in un cancro dell’esofago.

Lo stesso processo caratterizza nel fumatore la metaplasia dell’epitelio bronchiale da cilindrico ciliato a squamoso stratificato. Anche qui il driver è l’espressione genica secondaria a fattori ambientali (l’infiammazione da fumo di sigaretta) ed anche qui si può poi incorrere in una modifica strutturale del DNA che è causa di un tumore.

Non solo questioni fisiche, ma anche mentali

Psicologia e psichiatria negli ultimi decenni hanno cercato di colmare il gap metodologico con altre discipline mediche servendosi delle nuove conoscenze neurofisiologiche per corroborare teorie patogenetiche con spendibilità diagnostica: la carenza del tal neurotrasmettitore per giustificare la depressione o l’iper-espressione del tal recettore per giustificare l’aggressività sono solo alcuni esempi.

Tuttavia il cervello umano si è rivelato un campo di gioco estremamente difficile, caratterizzato da un’infinità di questioni che nonostante gli enormi progressi scientifici restano contraddistinte da interrogativi aperti, dove sancire correlazioni e rapporti causali è molto più complesso di quanto siamo portati a credere. Giusto la scorsa estate si giunse a ridiscutere attraverso un’autorevole pubblicazione il ruolo della concentrazione di serotonina nella sindrome depressiva. Ciò che per decenni sembrava dato per scontato, ovvero un rapporto di causalità tra scarsità di serotonina e depressione, è stato contestato tramite evidenze significative creando non poco scalpore tra gli addetti ai lavori.

Di nuovo, è l’espressione genica a regolare all’interno del cervello di una persona, composto da neuroni che hanno lo stesso DNA, quali circuiti sono serotoninergici, quanta serotonina deve essere prodotta, quando deve essere rilasciata, quanti recettori capaci di captarla devono essere espressi e fondamentalmente quale sarà la risposta complessiva allo stimolo. Sia nel contesto patologico che in quello fisiologico. Risulta quindi incredibilmente difficile tracciare parallelismi ben definiti tra la sequenza nucleotidica del DNA e i tratti comportamentali. Singole mutazioni possono far supporre predisposizioni, ma mai nessi causali, tanto più che spesso la stessa base genetica si associa a differenti disturbi.

La preoccupante tendenza americana, in parte accademica ma soprattutto politico-culturale, che cerca di trainare l’intero mondo anglosassone verso un ridimensionamento del libero arbitrio veicolato da una forma poco rigorosa e pop di neuroscienza non ha trovato un’antagonista ma una sponda nella sociologia continentale. Entrambe le discipline cercano di erodere su estremi diversi la capacità di autodeterminazione dell’uomo nell’intento di trovare un deus ex machina che possa prendersi oneri e onori delle nostre scelte, con ovvie ripercussioni. Un condizionamento vincolante e secondo alcuni esclusivo, ora genetico, ora ambientale.

Oggi i fan di un determinismo genetico populista negano contro ogni evidenza che l’ambiente influenzi il comportamento, ma al tempo stesso i suoi detrattori fanno spesso dell’ambiente sociale l’unico condizionamento accettato.

Sebbene sia difficile discernere quando sia l’ambiente a formarci e quando siamo noi a formare l’ambiente dal punto di vista genetico, le certezze in ottica comportamentale umana sono davvero poche, se non nulle. Ad oggi le evidenze si limitano ad organismi semplici, come il moscerino della frutta Drosophila melanogaster, organismo molto studiato e comportamentalmente caratterizzato da stereotipati rituali d’accoppiamento, ovviamente anch’essi sottoposti ad espressione genica su driver ambientale. Traslare eventuali conclusioni sull’uomo o tracciare qualche parallelismo è attualmente impossibile, nonostante le nostalgie che larga parte della popolazione sembra nutrire nei confronti di un modello comportamentale/genico basato sull’interpretazione mendeliana della mente umana, in voga durante il ‘900. Tali teorie posero le basi per la segregazione razziale e l’eugenetica, prima di essere repentinamente archiviate quando l’assenza di evidenze divenne troppo ingombrante per continuare a sostenerle, eppure oggi i loro presupposti sembrano essere il naturale punto d’arrivo che molti considererebbero scientifico.

“È invece probabile che la predisposizione genetica abbia influenza soltanto su una piccola parte del nostro comportamento e che un’altra limitata frazione risulti determinata esclusivamente da fattori ambientali relativamente semplici. È però molto importante ricordare che la grande maggioranza dei fattori deterministici risiede verosimilmente in una moltitudine di interazioni tra fattori genetici. Tuttavia, anche se la genetica ci informa sui meccanismi della vita, essa non cancella la nostra essenza profonda di essere umani e cioè la nostra specifica capacità di riflettere sulle cose, di valutarle e di compiere scelte”

Ralph J. GreenspanTreccani

1 comment

Dario+Greggio 11/02/2023 at 14:05

Decisamente, più che “i geni” io ritengo le condizioni ambientali (di nascita, crescita, scolarizzazione educazione ecc) le “ragioni” per giustificare il razzismo :)

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