La perquisizione di una squadra di agenti dell’Fbi nella tenuta di Donald Trump di Mar-a-Lago (Florida) sarebbe dovuta essere il normale epilogo di un’avventura presidenziale rocambolesca e ai limiti dello Stato di diritto, salutata con un silenzioso sollievo dagli stessi elettori repubblicani. Un altro caso Nixon, tanto per intenderci. Ma nell’America di oggi è tutto diverso: la polemica infuria sui social network e in conciliaboli esoterici, portando con sé le ormai logore tesi cospirazioniste e la glorificazione di un leader martirizzato «dall’establishment demo-comunista». Intanto a far scalpore è la scelta del giudice Reinhart di rendere pubbliche il prossimo giovedì alcune motivazioni fornite dal Dipartimento di Stato, per ottenere l’autorizzazione alla perquisizione.
Le pene previste dall’Espionage Act
L’ispezione della tenuta del Tycoon è stata motivata dal sospetto che potessero esservi custoditi illegalmente dei documenti sulla difesa nazionale, verosimilmente sottratti agli archivi della Casa Bianca durante gli ultimi giorni di presidenza del padrone di casa. Il mandato conferiva agli agenti il potere di sequestrare documenti per le presunte violazioni di tre leggi, rispettivamente con i numeri di codice 793, 1519 e 2071. Gli uomini dell’Fbi sono ritornati alla base con 11 scatoloni pieni zeppi di documenti, alcuni dei quali – quattro per la precisione – contenenti informazioni classificate come «top secret» (la classificazione legale dei documenti negli Stati Uniti è tripartita in top secret, secret e reserved).
Le leggi statunitensi citate nel mandato prevedono per il reato di possesso non autorizzato di informazioni e documenti sulla difesa nazionale una pena detentiva che raggiunge un massimo di dieci anni di carcere, oltreché condanne dai tre ai vent’anni per distruzione e nascondimento degli stessi documenti. Nessuna delle tre leggi presuppone la classificazione dei documenti come requisito per la rilevanza delle informazioni, giacché una di esse fu approvata ai sensi dell’Espionage Act del 1917, entrato in vigore prima dell’introduzione del sistema di classificazione legale. Per questo la difesa appuntata maldestramente dall’ex presidente, che sosteneva che i documenti fossero stati declassificati per tempo, è evidentemente irrilevante ai fini di un eventuale processo.
Mentre montano le proteste degli estremisti sui social network e il 54% dei repubblicani si cinge a difesa del suo leader , arriva inaspettata la decisione del giudice Bruce Reinhart di rendere pubbliche alcune delle motivazioni fornite dal Dipartimento di Giustizia per giustificare la richiesta di perquisizione. Il magistrato ha ordinato al Dipartimento di Stato di presentare entro il mezzogiorno del prossimo giovedì una versione redatta della dichiarazione.
Jay Bratt, capo della sezione di controspionaggio e controllo delle esportazioni del dipartimento, tuona serafico il suo dissenso: «C’è un altro interesse pubblico in gioco oltre a quello alla trasparenza, ed è l’interesse pubblico che le indagini penali possano andare avanti senza ostacoli». Ma la decisione sembra oramai presa, e per mettere le mani su quei documenti si dovrà attendere la prossima settimana. Trump intanto attende sornione che la pubblicazione dei documenti disposta da Reinhart possa diventare per lui un fendente da utilizzare su Twitter contro i suoi avversari, data la sua abilità nel cavalcare gli scandali e le angustie che il suo Paese si è ritrovato ad affrontare negli ultimi tempi.
La demagogia digitale
Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono diventati il teatro di marasmi fuori misura che hanno messo a repentaglio la tenuta delle istituzioni repubblicane, minacciando rivolgimenti politici devastanti a seguito dell’estremismo raggiunto da alcune fazioni politiche. La crisi climatica, i movimenti di protesta degli afroamericani, i conflitti con Russia, Cina e Iran, il ritiro dagli accordi sul nucleare, la disfatta di Doha, le centinaia di migliaia di morti a causa della pandemia e, da ultimo, il conflitto in Ucraina sono gli uragani che campeggiano in un panorama vasto e complesso come quello della rivoluzione digitale. Una rivoluzione che è avvisaglia di un vero e proprio cambio di paradigma nel dominio del mondo; quel mondo eternamente governato dalla tecnica.
L’avvento di una nuova tecnica, quella digitale, ha imposto un cambio di passo anche al linguaggio politico e ai metodi di comunicazione. L’inesplorato orizzonte delle principali piattaforme social (Facebook, Instagram, Twitter e TikTok) si è tramutato in un bivacco anti-intellettuale cosparso di fantasie anarchicheggianti, in cui sono fiorite come primule in primavera le dietrologie populiste e cospirazioniste. Il politico a suo modo ha tentato, in ossequio alla sua millenaria versatilità, di dominare la nuova tecnica, facendo proprio un paradigma di linguaggio privo di regolamentazione, oltreché sprovvisto dei minimi canoni di correttezza imposti a suo tempo dalla tecnica giornalistica.
La conseguenza è stata la demagogia. Quella forma di governo che Platone posizionò immediatamente prima della tirannia, probabilmente un accostamento lungimirante. Una demagogia che abbiamo ammirato in tutto il suo grigiore, attraverso quel Donald Trump nerovestito e galvanizzato come pochi, impegnato ad infiammare le folle per mettere a segno l’assalto a Capitol Hill in quel turpe 6 gennaio 2021.
Donald Trump, l’Antonio Ferrer d’oltreoceano
Colpo di Stato fallito. Ma la demagogia da una sconfitta politica è in grado talvolta di ricavare prosperità. Così, con noncuranza, il Tycoon si prepara per le elezioni di medio termine, nonostante l’imperversare di perquisizioni, commissioni d’inchiesta e accuse di vario genere.
Lo stile è sempre lo stesso. Il richiamo ad un identitarismo post-ideologico che fa incetta di postulati ancestrali appartenenti a filoni di pensiero tramontati: dal protezionismo al nazionalismo, dall’intransigentismo cristiano antifemminista al sionismo islamofobo.
La logica rimane la medesima. Il pendolarismo politico si trasforma silenziosamente in una narrazione manichea della competizione elettorale, in cui si contrappone l’interesse americano dei repubblicani alla follia filo-comunista dei democratici. La demonizzazione dell’avversario diviene il principale strumento di manipolazione del consenso e di distorsione dell’offerta politica.
Le fallacie argomentative permangono nella loro infallibilità. Il leader, uomo del popolo e inviso alle élite, si batte per gli interessi della popolazione americana, ma tra lui e la vittoria si frappongono ignobili minacce. Lui soffre, perché è bersaglio di infamanti accuse da parte dell’establishment. Ma proprio quella sofferenza assume la parvenza del sacrificio eroico compiuto per la causa comune; quella sofferenza che si tramuta in glorificazione.
Gli effetti della strategia geopolitica protezionistica adottata durante la presidenza del Tycoon segnano ancora il tessuto economico americano. Le innumerevoli guerre commerciali sono state condotte all’insegna della produzione nazionale, provocando fratture sociali e danni economici nel lungo periodo. Veri e propri disastri economico-sociali che oggi sono alla base delle sommosse capeggiate dallo stesso Trump.
Quasi si ritrovano delle analogie con le gesta di un personaggio di manzoniana memoria. Costui, in veste di Governatore di Milano, impose l’abbassamento del prezzo del pane, misura che illusoriamente ne garantì una maggiore diffusione, ma che nel lungo periodo condusse alla scarsità di farina e all’avvento di una carestia senza precedenti. Memorabile è la scena dell’assalto ai forni.
Questo è il trumpismo. E questi i caratteri che rendono la sua incarnazione antropomorfa temibile come se fosse l’Antonio Ferrer d’oltreoceano.
A tal riguardo, non sembrano smisurati gli allarmi lanciati da Ugo Tramballi, nelle righe in cui afferma che se Trump dovesse vincere le elezioni del 2024, «sarebbe una minaccia per la democrazia occidentale più grave di qualsiasi altro eventuale smottamento elettorale in Europa».
Nel frattempo The Donald attende con sorriso spavaldo giovedì 25 agosto, pronto ad urlare nuovamente alla cospirazione e al boicottaggio dei «violenti democratici»; e trasognato vagheggia i prodromi di una prossima tirannia.
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1 comment
beh tutto come berlusconi, peraltro noi siamo arrivati prima…
pardon, “voi” :)