Il fatto che la situazione odierna dell’economia italiana non sia delle migliori è qualcosa di cui è consapevole la maggior parte dei cittadini. Tuttavia se la vulgata denuncia tale condizione, poco, anzi quasi niente, si fa per capire cosa l’abbia provocata e continui a perpetrarla. Se guardiamo solo gli ultimi vent’anni notiamo come il tasso di crescita del PIL pro capite abbia subito una caduta notevole con gravi recessioni che hanno messo ulteriormente in ginocchio il Paese (dopo la crisi finanziaria del 2008 l’Italia registrerà nel 2009 -5,71%, nel 2012 -3,24%; non è da meno il grave colpo ricevuto durante la pandemia dove nel 2020 si è avuto un calo dell’ 8,51%). Si può notare anche come tra il «2003-09 il tasso di crescita medio della nostra economia è stato infatti pari allo 0,3% contro l’1,2% della Francia e l’1,6 della Germania»[1].
Questa stagnazione economica ha delle radici storiche e culturali che sono peculiari della storia italiana. Occorre domandarsi: per quale motivo gli altri Paesi sono riusciti a garantire una crescita economica positiva e più o meno costante (tenendo comunque conto dei rallentamenti generali dell’economia come quelli degli ultimi dieci anni del secolo scorso o la crisi del 2008)[2], mentre l’Italia sembra essersi fermata agli anni ’90 (se non prima)?
Si può provare a rispondere illustrando in ordine cronologico i cambiamenti dell’economia italiana. Con l’inizio del XX secolo e fino al termine della Prima guerra mondiale l’Italia entra nella cerchia dei Paesi industrializzati. Tra le varie mosse che permisero ciò, si rivelarono determinanti alcune azioni del governo giolittiano come quella di nazionalizzare le ferrovie sul territorio, poiché gli indennizzi sborsati per tale obiettivo furono prontamente investiti nell’industria elettrica, contribuendo alla modernizzazione del Paese[3].
Successivamente, durante il ventennio fascista, aumentò la concentrazione dell’economia nelle mani di pochi imprenditori e dello Stato, soprattutto grazie a politiche protezionistiche. La conseguente riduzione di concorrenza ritardò l’innovazione. In aggiunta occorre ricordare come lo stato fascista gestì la crisi del ‘29 con la creazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) nel 1933, che si prese carico delle industrie rasenti la via del fallimento attraverso il salvataggio di tre banche. Ma il sistema si immobilizzò ancor di più quando nel 1936 si obbligarono le banche a concedere solo prestiti di breve termine al settore industriale, di modo che lo Stato potesse controllare l’indirizzo economico del Paese[4].
Nel dopoguerra, l’Italia sperimentò una nuova e strabiliante ondata di crescita economica, grazie principalmente a quattro fattori, due endogeni e due esogeni. Trattando dei primi, inizia proprio negli anni ’50 quel processo di trasformazione sociale che assume le caratteristiche della ben conosciuta società dei consumi. Si assistette a un aumento vertiginoso della domanda interna, rimasta fino ad allora alquanto limitata.
Contemporaneamente il sistema di direzione pubblica dell’economia portò i suoi frutti, garantendo una rete infrastrutturale al mercato che necessitava di autostrade all’avanguardia e telecomunicazioni efficienti. Lo Stato svolse egregiamente la funzione di imprenditore, in stretta e proficua collaborazione con le maggiori industrie private e con imprenditori e dirigenti illustri come Sinigaglia, Olivetti, Valletta, Luraghi e Mattei.
Tuttavia, entrambi questi impulsi non poterono realizzarsi nell’obiettivo di una crescita economica senza precedenti, se non inseriti a loro volta in un contesto europeo e internazionale totalmente nuovi e improntati alla cooperazione. Il processo di integrazione europea (iniziato nel 1952 con l’entrata in azione della CECA e perfezionato con i Trattati di Roma del 1957 che portarono alla nascita della CEE) promosse un ulteriore allargamento del mercato. A ciò si aggiunsero investimenti internazionali resisi necessari dopo la devastazione della guerra. Questi due sviluppi segnarono una fase positiva dell’economia italiana con un progressivo aumento degli occupati nel settore industriale (basandoci sulle tecnologie della seconda rivoluzione industriale), che da un 40% del totale degli occupati fra le due guerre arrivò al 52% nel 1961[5].
Se la stretta collaborazione fra grande impresa e Stato risultava essere un fattore chiave per la crescita, avendo garantito il successo del famoso “miracolo economico”, qualcosa stava cambiando. Nel 1971 cessarono gli accordi di Bretton Woods, i quali avevano ancorato la moneta di ogni stato che aveva partecipato alla ricostruzione occidentale al dollaro statunitense, a sua volta garantito dalla loro base aurea (gold exchange standard). Si passò quindi a un regime di cambi flessibili. Ma ancor più importante, si affermò, dopo lo shock petrolifero del 1973 conseguente al mutato scenario mediorientale causato dalla vittoria di Israele nel 1967, la terza rivoluzione industriale. Quest’ultima richiedeva prontamente nuove strutture e capacità: il cambiamento era radicale poiché presupponendo dei «mercati di consumo ormai pienamente sviluppati, la crescita non poteva più risiedere nell’allargamento estensivo dei fattori produttivi, e tendeva invece a spostarsi verso l’innovazione intensiva delle tecnologie e dei prodotti, e nell’espansione dei servizi»[6].
Come reagì l’Italia a tutto questo?
Il sistema ricevette un grande scossone, ma si adattò, anche se l’adattamento consistette in una specializzazione verso produzioni con basso livello di produttività e una scarsa innovazione tecnologica. Oramai il sistema d’impresa pubblico invece di perseguire il fine per cui era stato ideato, cioè fare da supplenza al settore privato, favoriva la sopravvivenza di aziende improduttive e con un alto costo del lavoro. Per rendere l’idea, con la fine del 1978 le imprese pubbliche arrivarono ad avere debiti di 1100 lire per ogni 1000 lire di fatturato, mentre, relativamente al periodo 1968-1978, il costo di un operaio per ora lavorata era aumentato del 450% a fronte di un aumento del 350% nel fatturato[7].
Tramite questi numeri si comprende come l’indebitamento fosse in pericolosa crescita, divenendo sempre più insostenibile. A ciò si aggiunse un’inflazione galoppante che andò intrecciandosi con le svalutazioni (dette competitive) della moneta, operate per aumentare l’export. Tuttavia esse non furono di grande aiuto poiché così facendo si generava «una spirale, per larga parte autoalimentantesi, in cui la maggiore inflazione interna era preceduta in alcuni casi, e seguita in altri casi, dalla svalutazione della lira»[8]. Il legame fra la grande industria e il sistema politico portò poi all’inevitabile accondiscendenza della prima verso le richieste del secondo, nonché al blocco dell’innovazione e della concorrenza in un momento in cui essi sarebbero stati essenziali per un efficace consolidamento economico data la congiuntura internazionale.
La crisi economica, l’inflazione e le richieste sindacali, portavano la classe politica ad evitare i conflitti sociali e garantire la propria influenza tramite l’aumento dei salari ai lavoratori. In questa logica consociativa, la potenza dei sindacati e del partito di riferimento per eccellenza, il Partito Comunista, portavano ad esigere di più rispetto alle possibilità reali dell’economia italiana. Si alimentava così la spesa pubblica rispondendo quindi alle richieste «più eterogenee di assistenza pubblica, di sussidi e di protezionismi corporativi»[9].
In tale contesto le grandi imprese pubbliche beneficiarono degli interventi statali, i quali contribuirono a un aumento vertiginoso dell’indebitamento pubblico proprio dagli anni ’80. Allo stesso modo le imprese private si indebitarono fortemente, a fronte di una bassa redditività. Dopodiché alla mancanza di innovazione andò a sopperire una deverticalizzazione dei processi produttivi sul territorio che non essendo seguita né da un allargamento della base societaria delle grandi imprese, né da una loro spinta verso gli investimenti ad alta tecnologia, contribuì ad una crisi della grande impresa e ad una rinascita di quelle piccole e medie con scarsa produttività. Infatti fra il 1971 e il 1981 la percentuale di lavoratori in aziende con più di 500 addetti calarono dal 31% al 23%, mentre quella nelle imprese con meno di 100 addetti cresceva fino ad avvicinarsi al 60%[10]. Queste imprese si collocarono nei distretti industriali diffusi maggiormente nel Nord e Centro Italia, dove un sostrato culturale italiano imperniato sulla leadership familiare era ben radicato[11]. La dimensione d’impresa è una variabile importante: la percentuale d’imprese che investono in R&D (research and development, ovvero ricerca e sviluppo), è del 13.8% fra le piccole, rispetto al 50.7% fra le grandi (più di 250 dipendenti). La dimensione d’impresa ha quindi una correlazione positiva con l’innovazione, elemento che potrebbe spiegare come mai in Italia la produttività stenti ad aumentare rispetto ad altri Paesi[12].
La forte presenza dello Stato, una propensione storicamente italiana alla direzione familiare nelle imprese, il forte indebitamento, gli scarsi investimenti italiani (che si riversarono al più sui titoli di Stato) ed esteri in nuove tecnologie, crearono le premesse per il lungo declino economico di cui siamo testimoni da più di trent’anni. Tramite questa nuova ridefinizione, l’economia italiana non cambiò direzione nemmeno dopo le privatizzazioni iniziate negli anni ’90 (necessarie per imprese ormai divenute solamente un fardello e senza alcuna redditività), tanto che alla dismissione completa dell’IRI nel 2001 non si ebbe alcun rilancio industriale.
La stortura che si è venuta a creare mostra una presenza nociva dello Stato, il quale ancora ostacola l’innovazione. Alcune imprese pubbliche dopo gli anni ’90 sono divenute società per azioni in cui lo Stato o è maggiore azionista o ne detiene una quota azionaria tale da esercitare un veto. In questo modo, lo Stato impone vincoli cogenti in difesa dell’occupazione, nella definizione di statuti o nella scelta degli incarichi dirigenziali[13]. Infine l’ingente tassazione e una giustizia inefficiente completano il quadro di un’Italia che non riesce ad innovare e garantire crescita e sviluppo, una colpa che risiede maggiormente nella classe dirigente politica.
Questa classe politica non ha saputo avviare un processo di innovazione tecnologica nazionale. Non ha investito a sufficienza su istruzione e ricerca, non ha cambiato leggi obsolete o ridefinito le regole in materia di trasparenza e accountability. Non ha nemmeno fatto i conti con l’esigenza di far emancipare l’Italia da modelli manageriali “familiari” che non favoriscono la sopravvivenza delle aziende sul lungo periodo e ne limitano fortemente la produttività[14].
Il declino c’è ed è difficile da gestire. Ma mentre passano gli anni diventa sempre meno probabile che eventuali politiche volte a favorire la crescita dell’economia italiana e a far cambiare rotta al Paese abbiano successo. Ecco perché è indispensabile iniziare il prima possibile.
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[1] R. Artoni, Le interpretazioni del declino economico italiano, in S. Pons, A, Roccucci, F. Romero, (a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. I. Fine della Guerra Fredda e globalizzazione, Carocci, Roma, 2014, p. 115.
[2]Ibidem.
[3] C. Fumian, Traiettorie del declino economico italiano, in S. Pons, A, Roccucci, F. Romero, (a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. I. Fine della Guerra Fredda e globalizzazione, Carocci, Roma, 2014, p. 87.
[4] A. Colli, A. Rinaldi & M. Vasta (2016) The only way to grow? Italian Business groups in historical perspective, Business History, 58:1, 30-48, DOI: 10.1080/00076791.2015.1044518, p. 32.
[5] F. Amatori, M. Bugamelli e A. Colli, Italian Firms in History: Size, Technology and Entrepreneurship, Economic History Working Papers, Banca d’Italia, n. 13 Ottobre 2011, p.11.
[6] F. Romero, Storia della Guerra Fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino, 2009, p. 253.
[7] V. Castronuovo, Storia economica d’Italia: dall’Ottocento al 2020, Einaudi, Torino, 2021, Ebook, cap. VI.
[8] R. Artoni, Le interpretazioni del declino economico italiano, cit., p. 116.
[9] V. Castronuovo, Storia economica d’Italia: dall’Ottocento al 2020, cit., cap. VI.
[10] P. Craveri, L’arte del non governo: l’inesorabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia, 2016, p. 434.
[11] F. Amatori, M. Bugamelli e A. Colli, Italian Firms in History: Size, Technology and Entrepreneurship, cit., p.27.
[12] Ivi, p 16.
[13] P. Craveri, L’arte del non governo: l’inesorabile declino della Repubblica italiana, cit., p. 506.
[14] Ivi, p. 31-31.
2 comments
già: io ci vedo un ottimo mix di statali di merda (un must italico, anche se non soltanto) e quella “pigrizia” dei popoli del sud, presente in vario modo nelle varie regioni ma cmq di più che nei Paesi del nord europa (e meno che in africa, come è logico).
quando si commenta con “mix” e “popoli del sud” si dimostra di non avere capito assolutamente niente di quanto l’autore ha analizzato.